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16 Ottobre 2025 - 17:48
Noemi Di Segni scuote l’Europa: “Non dite mai più Shoah se gridate al genocidio”
"Il 'mai più' e la memoria della Shoah come dovere delle istituzioni repubblicane e di ogni cittadino italiano non possono essere evocati se poi su altre piazze e in altre sedi, parlamentari, accademiche, nei media e nelle iniziative (simil) culturali, si annebbia l'esistenza di Israele, si grida al genocidio". Lo dichiara Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. "Quale memoria può esserci se si piangono i perseguitati e si dimenticano gli ebrei vivi, boicottando, calpestando e negando loro oggi quelle stesse libertà negate ieri, cambiando oggi quelle stesse pagine sui libri di storia e geografia? Quale memoria può esserci se l'Europa radicalizzata dall'odio non difende le stesse libertà costruite sulle ceneri della Shoah?", sottolinea la presidente Ucei.
Il dolore degli ebrei vali più di quello dei palestinesi?
Il richiamo alla memoria della Shoah, oggi più che mai, è necessario. Ma non può diventare terreno di divisione, né pretesto per negare la sofferenza di altri popoli. Come il "genocidio" in atto a Gaza. Il dolore immenso che la persecuzione nazista ha inflitto agli ebrei d’Europa resta una ferita aperta nella coscienza del mondo. Tuttavia, la memoria di quell’orrore non deve trasformarsi in una gara al dolore, né in una lente che impedisce di vedere altre tragedie che oggi si consumano davanti ai nostri occhi.
Le parole di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, hanno riaperto un dibattito delicato e necessario. Di Segni ha ammonito che non si può evocare il “mai più” della Shoah se, allo stesso tempo, in altre piazze o sedi politiche si grida al genocidio commesso da Israele. Il suo messaggio, duro e netto, tocca un nodo centrale: la memoria, per restare viva, deve essere coerente. Ma quella coerenza, oggi, deve misurarsi con una realtà drammatica che attraversa il Medio Oriente e che interroga la coscienza di tutti.
Mentre le istituzioni europee commemorano le vittime dell’Olocausto, in Palestina, e in particolare nella Striscia di Gaza, si continua a morire. Secondo fonti ONU e organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Rights Watch, l'esercito israeliano ha provocato migliaia di vittime civili, negli ultimi due anni: intere famiglie cancellate, ospedali distrutti e quartieri rasi al suolo. È una tragedia che va oltre le definizioni politiche: una catastrofe umanitaria che coinvolge un popolo già segnato da decenni di assedio e occupazione. Tanto che, pur non essendo riconosciuto a livello giuridico, il concetto di genocidio si sposa perfettamente con quello che sta accadendo in quel lembo di terra: una pulizia etnica lucida e consapevole, confermata - in modo neanche troppo velata - dai diretti interessati.
Definire questa situazione non è questione di ideologia, ma di realismo e responsabilità etica. La sofferenza palestinese non può essere relativizzata, né può essere letta soltanto attraverso la lente della geopolitica o della sicurezza. Le denunce arrivate da osservatori internazionali, giuristi e relatori speciali delle Nazioni Unite parlano di violazioni gravi del diritto internazionale umanitario, di bombardamenti sproporzionati, di uso deliberato della fame come arma di guerra.
Ecco perché il dibattito sulla memoria diventa urgente. Non è una gara tra chi ha sofferto e chi soffre oggi. Non si tratta di contrapporre dolori, ma di chiedersi se l’Europa – che ha giurato “mai più” dopo Auschwitz – stia davvero difendendo quei valori universali di libertà, dignità e diritto alla vita che sono nati dalle ceneri della Shoah. Onorare la memoria non significa blindarsi dietro di essa, ma tradurla in azioni capaci di prevenire nuove forme di disumanità, chiunque le compia e ovunque accadano.
La tragedia di Gaza, dunque, non può essere rimossa o derubricata a “effetto collaterale”. Riconoscerla non è negare la sofferenza ebraica, ma affermare un principio universale di giustizia. Chi oggi denuncia la distruzione sistematica di una popolazione civile non lo fa per odio, ma per fedeltà alla verità. Perché se “mai più” deve avere un significato, allora non può valere solo per alcuni.
Il dolore degli ebrei, vittime di uno sterminio senza precedenti, non deve mai essere dimenticato o messo in discussione. Ma ricordarlo significa anche difendere il diritto di ogni popolo a non subire la violenza del potere. La memoria non è un patrimonio esclusivo: è un impegno collettivo, che deve valere in ogni tempo e in ogni luogo.
Oggi, nelle strade di Gaza, nei campi profughi, nei quartieri ridotti in macerie, si consuma una tragedia che interpella la coscienza di tutti. È possibile ricordare la Shoah e allo stesso tempo riconoscere il dramma palestinese. È possibile piangere le vittime del passato e pretendere giustizia per quelle del presente.
Ridurre tutto a uno scontro ideologico significa tradire la complessità della storia. La memoria non deve essere usata come scudo politico per giustificare azioni che calpestano i diritti umani. E allo stesso modo, chi invoca la pace non deve trasformare la condanna in odio. Serve equilibrio, ma anche coraggio nel nominare ciò che accade. Quando civili, bambini, ospedali e scuole vengono colpiti sistematicamente, la coscienza non può tacere.
L’Europa, se vuole essere fedele a se stessa, deve smettere di usare la Shoah come simbolo astratto e tornare a farne una bussola morale. Perché il vero tradimento della memoria non sta nel gridare “genocidio” quando si assiste alla distruzione di un popolo, ma nel voltarsi dall’altra parte, giustificando la violenza in nome della storia.
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