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Fabrizio Bertot. "Ve lo dico io chi è il candidato a sindaco del centrodestra a Torino". E a Roma spunta Calenda

Toto-sindaco e ritorno alle sezioni: il centrodestra abbandona i civici e punta sui tesserati e sulle periferie di Roma, Milano e Torino.

Fabrizio Bertot. "Ve lo dico io chi è il candidato a sindaco del centrodestra a Torino". E a Roma spunta Calenda

Maurizio Marrone, Fabrizio Bertot e Carlo Calenda

Nel centrodestra è tornata la stagione più amata dai retroscena politici: quella del toto-sindaco. È un rito, quasi liturgico. Si comincia a parlarne con anni d’anticipo, si fanno nomi, si smentiscono, si rilanciano, si rismentiscono — e alla fine, come da tradizione, decide Roma. Perché, come confida chi la politica la conosce bene, le candidature si fanno sotto il Cupolone, non certo sotto la Mole.

A ricordarcelo, con la schiettezza di chi ha fatto più sezioni che salotti, è Fabrizio Bertot, segretario provinciale di Fratelli d’Italia, ex europarlamentare, uomo “pane, salame e partito”.
«Giuro che durante la riunione con gli altri segretari, Roberto Rosso e Elena Maccanti, di cui ha parlato La Stampa, ci siamo concentrati su Venaria e Moncalieri. E su Venaria tutti d’accordo per Fabio Giulivi. Che poi si parla di una riunione, ma con gli alleati io parlo tutti i giorni su WhatsApp…».

Poi aggiunge, come chi sa che il punto è altrove:
«Se vuoi la mia idea di candidato per Torino, deve avere una tessera in tasca. Basta con i civici. Le prossime elezioni si giocheranno sulle periferie. Ecco, il candidato deve essere uno che le conosce, non per sentito dire. E uno che sappia ascoltare. Si giocherà tutto lì».

Eccolo, il manifesto torinese del nuovo centrodestra: basta civici, basta improvvisati, basta volti “tecnici” calati dall’alto. Dopo l’esperienza di Paolo Damilano, il centrodestra sotto la Mole vuole tornare alle origini: la politica fatta nei circoli, nelle sezioni, tra le tessere e i caffè presi al banco.

E così, tra una smentita e un “vedremo”, i nomi cominciano a girare come coriandoli fuori stagione. C’è Andrea Tronzano, ex assessore regionale, forzista di vecchia scuola, esperto nell’arte della mediazione e dei pranzi di lavoro. Poi Maurizio Marrone, assessore regionale di Fratelli d’Italia, il volto identitario per eccellenza, uno che in periferia ci va per davvero e non solo in campagna elettorale. C’è Filippo Dispenza, ex questore e oggi coordinatore cittadino di FdI, che garantisce un profilo “d’ordine” e di disciplina.

E poi c’è lei: Cristina Seymandi. Manager, organizzatrice, ex collaboratrice di Chiara Appendino ai tempi del civismo grillino (poi rientrata nel perimetro meloniano), si è autocandidata pubblicamente. Un gesto che ha fatto alzare più di un sopracciglio. C’è chi la vede come un segnale di vitalità, chi come un fuoco d’artificio mediatico. Qualcuno l’ha presa come una provocazione, altri come una ventata d’aria nuova. Tutti, però, ne parlano. E in politica — si sa — essere nominati è già mezza vittoria.

Carlo Calenda

Carlo Calenda

Intanto, a Roma, si gioca già sul serio. Qui la lista dei nomi è lunga quanto una legge di bilancio: Giovanni Malagò, il presidente del CONI, figura sportiva e istituzionale; Arianna Meloni, sorella della premier, nome evocato ma mai confermato; Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e volto della destra storica; Luciano Ciocchetti, politico esperto e pragmatico; Maurizio Abodi, ministro dello Sport; Roberta Angelilli, vicepresidente della Regione Lazio.
E poi, immancabile come il panettone a Natale, Carlo Calenda: lui smentisce, si infuria, parla di “gossip politico”, ma i retroscenisti non lo mollano. È l’eterna tentazione del centrodestra: un civico di destra, ma senza dirlo troppo forte.

A Milano, invece, la partita è più discreta ma non meno affollata. Il centrodestra cerca l’anti-Sala, e i nomi sono sempre quelli: Maurizio Lupi, volto rassicurante dei moderati; Riccardo De Corato, veterano di mille giunte e battaglie cittadine; Luca Bernardo, il pediatra candidato nel 2021 e mai del tutto rassegnato; Giovanni Bozzetti, imprenditore vicino a FdI, simbolo del legame fra impresa e politica.
E, per dare un tocco di colore, qualcuno butta lì Alessandro Sallusti, giornalista dai titoli più forti dei programmi. Un “candidato mediatico” per una città che vive d’immagine.
Restano infine, come suggestioni da “piano alto”, Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera, e Alberto Mantovani, scienziato di fama mondiale: ottimi nomi per le copertine, meno per le buche e i bilanci comunali.

Tre città, tre mondi, tre modi diversi per dire la stessa cosa: il centrodestra vuole tornare a scegliere in casa propria. Niente più “avventure civiche”, niente più candidati da copertina. Si torna alla politica con la P maiuscola — o almeno, con la tessera in tasca e qualche chilometro di volantinaggio alle spalle.

Insomma, nel centrodestra è partita la solita danza delle candidature. Ogni due anni, come le migrazioni degli uccelli, ricomincia il rito: cene riservate, indiscrezioni pilotate, smentite indignate e qualche «non mi candido, ma se me lo chiedono…».
A Roma si gioca al toto-sindaco come al Superenalotto, a Milano si parla di equilibri e moderazione, e a Torino — come sempre — si aspetta la benedizione che arriva da Roma.

Nel frattempo, però, sotto la Mole la città continua a sbucciarsi le ginocchia tra una buca e una promessa, in attesa di sapere chi sarà il prossimo a dire che “ripartiamo dalle periferie”.
Perché, alla fine, una sola certezza resta: le candidature si fanno sotto il Cupolone, ma i voti — quelli veri — si contano tra Falchera e le Vallette.

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