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Camerun, Biya non molla: a 92 anni verso l’ottavo mandato in un Paese stanco e diviso

Dopo oltre quarant’anni al potere, Paul Biya tenta di nuovo la sorte alle presidenziali del 12 ottobre 2025. Il Camerun, tra povertà, conflitti e disillusione, affronta un voto che somiglia più a un rituale che a una scelta democratica

Camerun, Biya non molla: a 92 anni verso l’ottavo mandato in un Paese stanco e diviso

Camerun, Biya non molla: a 92 anni verso l’ottavo mandato in un Paese stanco e diviso

Una folla raccolta nella piazza di Yaoundé, capitale del Camerun, alterna brevi applausi a qualche fischio. È l’immagine di un Paese stanco, che non sa più se restare immobile o tentare di cambiare. Sul palco, come da quarantatré anni, c’è sempre lui: Paul Biya, 92 anni, presidente dal 1982 e pronto a ricandidarsi per l’ottavo mandato consecutivo alle elezioni del 12 ottobre 2025. Un uomo che ha costruito intorno a sé un potere granitico, capace di sopravvivere a colpi di Stato, crisi economiche, guerre interne e proteste popolari. Ma anche un potere che oggi mostra crepe sempre più evidenti, sotto la patina di continuità e stabilità che per decenni ha giustificato la sua lunga permanenza al vertice dello Stato.

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La candidatura di Biya, ufficializzata in luglio, è stata presentata come una risposta alle “numerose e insistenti richieste del popolo”. Una formula consunta che non convince più nemmeno i suoi fedelissimi. Dalla Chiesa cattolica, l’arcivescovo Samuel Kleda ha definito “non realistico” il proseguimento di una leadership che ha ormai superato ogni limite temporale e fisiologico. Due ministri del Nord, storicamente roccaforti di Biya, hanno lasciato il governo, e perfino in famiglia si è aperta una crepa: Brenda Biya, la figlia del presidente, ha diffuso un video in cui chiedeva apertamente un cambiamento, accusando il padre di aver “fatto soffrire troppa gente”. Il video è stato poi rimosso e accompagnato da scuse, ma il danno era fatto. In molti lo hanno letto come il segnale di un sistema che, dopo quarant’anni, comincia a collassare anche dall’interno.

Eppure, il presidente resiste. Nonostante l’età avanzata, le voci ricorrenti sui problemi di salute e le lunghe assenze dal Paese — trascorse spesso in Svizzera — Biya continua a dominare la scena politica camerunese. Intorno a lui, il CPDM, il partito di governo, resta un apparato potentissimo, radicato soprattutto nelle zone rurali, dove le reti clientelari e il controllo del voto sono ancora solidi. Nelle città, però, l’atmosfera è diversa: cresce la frustrazione per la stagnazione economica, la corruzione endemica e l’assenza di prospettive per i giovani.

Alle elezioni del 2025 si sono presentati oltre ottanta candidati, ma solo tredici sono stati ammessi ufficialmente. Tra loro, diversi ex alleati di Biya che oggi tentano di rappresentare il cambiamento. Issa Tchiroma Bakary, ex ministro della Comunicazione, si presenta come oppositore dichiarato del regime che per anni ha servito, denunciando la gestione fallimentare delle risorse nazionali. Cabral Libii, giovane leader del Partito per la Riconciliazione Nazionale, punta a intercettare il voto urbano e quello dei giovani, mentre Joshua Osih, del Fronte Socialdemocratico, cerca di tenere viva la tradizione dell’opposizione nelle regioni anglofone, teatro da anni di un conflitto separatista sanguinoso. C’è anche Bello Bouba Maigari, anch’egli ex alleato del presidente, e Akere Muna, avvocato noto a livello internazionale per il suo impegno contro la corruzione. Ma la competizione appare segnata da un’assenza pesante: Maurice Kamto, il principale oppositore e già rivale diretto di Biya nel 2018, è stato escluso per presunti motivi procedurali. Kamto, che aveva denunciato brogli e subito l’arresto dopo le ultime elezioni, rappresentava l’unica vera minaccia per il presidente. La sua estromissione è stata giudicata da osservatori e ONG un colpo durissimo alla credibilità del processo democratico.

Il Camerun è un Paese dalle potenzialità enormi. È uno dei principali produttori di cacao dell’Africa e possiede risorse petrolifere, minerarie e agricole di rilievo. Eppure, la ricchezza non arriva alla popolazione. Le infrastrutture restano carenti, l’elettricità è instabile, l’accesso all’acqua potabile un privilegio, e la gestione dei rifiuti un problema cronico. La disoccupazione giovanile è altissima e il lavoro informale domina l’economia. Nelle regioni anglofone, il conflitto con i separatisti ha prodotto migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Nel Nord, la minaccia di Boko Haram è tutt’altro che scomparsa. In questo contesto, parlare di elezioni “libere” appare quasi un eufemismo.

Il sistema elettorale camerunese, basato sul principio del “first-past-the-post”, cioè la vittoria del candidato con più voti senza ballottaggio, favorisce da sempre il potere consolidato. Le istituzioni che dovrebbero garantire la trasparenza, come la commissione elettorale ELECAM o la Corte Costituzionale, sono percepite come controllate dal partito di governo. Le voci critiche vengono ridotte al silenzio, i giornalisti indipendenti subiscono arresti o intimidazioni, e il carcere di Kondengui, a Yaoundé, è tornato a essere simbolo della repressione politica. Perfino Human Rights Watch ha espresso forte preoccupazione per la repressione preventiva delle proteste e l’uso di tribunali militari contro gli oppositori.

La società civile, però, non è rimasta muta. Intellettuali, religiosi, organizzazioni locali e internazionali hanno lanciato appelli a non rassegnarsi. “Non possiamo vivere in un eterno presente”, ha detto un accademico di Douala, sintetizzando lo spirito che anima la nuova generazione. Nelle piazze e sui social circola un sentimento misto di paura e speranza. Tutti sanno che Biya ha costruito un sistema difficilissimo da scalfire. Ma in molti sentono che questa volta qualcosa si è incrinato. Il suo stesso partito, dopo decenni di unanimità, mostra crepe e rivalità interne che rendono il futuro meno scontato.

Resta da capire se il voto del 12 ottobre sarà un rito o una svolta. Da un lato, la macchina del potere è più che mai efficiente nel garantire il risultato desiderato; dall’altro, il malcontento popolare cresce, amplificato dalla crisi economica, dalla fame di cambiamento e da una consapevolezza sempre più diffusa tra i giovani: che il futuro non può continuare ad assomigliare al passato. Paul Biya, con la sua figura solenne e silenziosa, è diventato ormai il simbolo stesso dell’immobilismo. Ma ogni simbolo, prima o poi, si incrina.

E così il Camerun arriva alle urne stretto tra due estremi: da un lato la fedeltà alla continuità, dall’altro la voglia disperata di rompere un incantesimo lungo oltre quarant’anni. Dietro i sorrisi di circostanza e i comizi blindati, si nasconde la domanda che tutti si pongono e nessuno osa pronunciare ad alta voce: cosa accadrà quando Biya non ci sarà più? Forse, più che un’elezione, quella del 2025 è un referendum sul tempo stesso — su quanto a lungo un Paese può restare sospeso tra passato e futuro senza smarrire del tutto la propria anima.

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