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09 Ottobre 2025 - 17:35
Intorno alle 16.30 di oggi, 9 ottobre 2025, Israele ha firmato l’accordo. Dopo 23 mesi di guerra, un’infinità di morti, fame, macerie e silenzio, il conflitto più lungo e feroce del secolo ha visto una tregua scritta nero su bianco. Israele e Hamas hanno accettato un cessate il fuoco, uno scambio di ostaggi e prigionieri, e l’apertura dei corridoi umanitari nella Striscia. Una firma che arriva tardi, su un foglio intriso di lacrime e polvere.
Non ci sono fuochi d’artificio, né bandiere sventolate. A Gaza la gente non ha più fiato per festeggiare. Solo un silenzio denso, stremato, fatto di respiri brevi e occhi che guardano il cielo senza sapere se fidarsi. Oggi, però, quel cielo è solo cielo.
In una città dove nulla è rimasto integro, la tregua sembra quasi una parola stonata. Gaza City non è più una città: è un cumulo di rovine. Le facciate sventrate, le strade inghiottite dalla polvere, le insegne cadute che ancora recano nomi di ristoranti, di scuole, di sogni. Le Monde l’ha descritta come “un oceano di macerie svuotato della sua gente”. Una fotografia che non ha bisogno di didascalie.
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L’accordo firmato nel pomeriggio prevede la liberazione immediata di tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, in cambio del rilascio di centinaia di prigionieri palestinesi. Israele si impegna a un ritiro graduale e parziale delle proprie truppe dalla Striscia, mentre Egitto e Qatar garantiranno il passaggio dei convogli di aiuti umanitari. È la prima tregua vera, concreta, dopo due anni di distruzione. Ma la pace è ancora lontana, e tutti lo sanno.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha apposto la sua firma dopo ore di tensione nella Knesset. Le frange più estreme del suo governo hanno tentato fino all’ultimo di bloccare tutto, definendolo “una resa al terrorismo”. Ma la pressione internazionale, il peso dell’opinione pubblica, le immagini di Gaza devastata, le voci dei familiari degli ostaggi hanno avuto la meglio. Una madre israeliana, intervistata poco dopo l’annuncio, ha detto solo una frase: “Se mio figlio torna a casa, che la chiamino pure resa, per me è pace”.
Nel frattempo, dentro Gaza, la tregua non ha il suono delle dichiarazioni, ma quello dei passi leggeri. I sopravvissuti camminano tra i resti delle case, schivando vetri e lamiere, raccogliendo oggetti che non servono più a niente ma che sono tutto ciò che resta. Una bambina di otto anni mostra una scarpa, l’unica ritrovata della madre. Un uomo scava ancora nella polvere con le mani, cercando un fratello scomparso sotto un palazzo crollato settimane fa.
Secondo i dati raccolti dalle organizzazioni umanitarie, più di 67.000 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra. Decine di migliaia sono feriti, mutilati, sfigurati. Il settantotto per cento degli edifici di Gaza City è distrutto o gravemente danneggiato. I numeri non bastano per comprendere, ma servono a ricordare che dietro ogni cifra c’è un volto. In questi mesi sono stati ritrovati interi quartieri cancellati, strade divenute fossati, moschee sventrate, ospedali ridotti in macerie. Le ambulanze non arrivavano più, e chi provava a soccorrere veniva sepolto con chi tentava di salvare.
Un rapporto internazionale pubblicato ieri parla di 55.000 bambini sotto i sei anni affetti da malnutrizione acuta, di cui 12.800 in forma grave. Un bambino su cinque a Gaza City è sottopeso, e molti muoiono semplicemente per fame o infezioni minori. Gli ospedali, quando ancora funzionano, operano senza anestetici e con generatori che si spengono di continuo. Le madri cullano i figli come se fossero di cristallo, i medici pregano di notte. È il volto più atroce della guerra, quello che nessuna firma potrà cancellare.
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A Khan Yunis, poche ore prima della firma, un altro fronte interno è esploso. Hamas ha condotto un’operazione contro un clan locale accusato di aver collaborato con Israele. Diversi morti, nuovi lutti in una città già in ginocchio. È la prova che il potere, anche tra le rovine, resta una trappola. La tregua, per ora, ferma le bombe, ma non spegne la rabbia.
Dal Cairo al Qatar, dal Palazzo di Vetro a Washington, la notizia della firma è rimbalzata in tempo reale. I leader mondiali parlano di un “passo storico”, l’ONU di un “momento cruciale ma incompleto”. La comunità internazionale si congratula, ma dietro le parole resta il vuoto: chi governerà Gaza? Chi garantirà la sicurezza? Chi ricostruirà una terra dove il 90 per cento delle scuole è distrutto e l’acqua potabile è diventata un privilegio?
Il valico di Rafah si è riaperto al tramonto. I primi camion egiziani sono entrati nella Striscia tra la folla. Gente che applaude, gente che piange. Alcuni bambini, troppo piccoli per capire, corrono dietro ai mezzi come se fossero giostre. Un volontario della Mezzaluna Rossa dice: “È la prima volta che vedo sorridere un bambino da mesi”. In un ospedale improvvisato, una madre solleva il figlio e lo mostra ai medici: “Non respira, ma è vivo”.
Nonostante la firma, la paura non se ne va. Tutti ricordano le altre tregue, finite nel sangue dopo pochi giorni. Tutti sanno che basta una scintilla, un razzo, una provocazione, e la guerra riprende. Ma oggi, almeno per qualche ora, a Gaza non si muore. E questa frase, in un mondo assuefatto alla violenza, dovrebbe bastare per far tremare le mani di chi scrive.
Dicono che domani entreranno più aiuti, che i convogli aumenteranno, che forse l’elettricità tornerà per qualche ora. Dicono anche che alcuni ostaggi israeliani potrebbero essere liberati già stanotte. Ma a Gaza la gente non crede più ai “forse”. Si aggrappa ai fatti: al silenzio che cala, all’eco che non arriva, all’odore del pane che qualcuno prova a cuocere su un fornello improvvisato.
Un vecchio, davanti a ciò che resta della sua casa, dice piano: “Non so se è pace. Ma per la prima volta da due anni, sento solo il vento”.
Così finisce la giornata più lunga di tutte. Intorno alle 16.32, la guerra si è fermata. Non la fame, non la paura, non il dolore. Ma le bombe sì. Ed è già qualcosa. Gaza non festeggia, ma respira. E nel respiro stanco di un popolo sopravvissuto al proprio inferno c’è forse la lezione più amara: che la pace, quando arriva, non ha il suono dei trionfi, ma quello dei sospiri. È fragile, silenziosa, incredula. Come una madre che tiene la mano del figlio e sussurra, quasi per non spaventarlo: “Forse, domani, potremo dormire davvero”.
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