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10 Ottobre 2025 - 22:34
L’8 ottobre, l’Unitre di Cuorgnè ha inaugurato il nuovo anno accademico 2025-2026 con una cerimonia partecipata e densa di significato. Trenta e una conferenze animeranno la stagione, offrendo ai soci e ai cittadini un viaggio culturale che unisce conoscenza, riflessione e convivialità. Perché l’Unitre, come ha ricordato la presidente Maria Calvi di Coenzo, non è soltanto un’aula di studio, ma una vera comunità in cui si cresce insieme: tra lezioni, gite, letture e momenti di incontro che diventano esperienze di vita.
Alla cerimonia d’apertura hanno partecipato la sindaca Giovanna Cresto, il vicesindaco Giovanni “Vanni” Crisapulli, gli assessori Laura Ronchietto Silvano e Lara Calanni Pileri, i consiglieri Maria Grazia Gazzera e Bruno Bruschi, insieme al consigliere regionale Mauro Fava e a Sara Bertone, ispettrice delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, accompagnata da un gruppo di volontari. Dopo i saluti istituzionali, la conferenza inaugurale ha affrontato un tema che tocca da vicino il cuore della democrazia: il carcere come misura di civiltà.
Tre relatori — l’avvocato Mauro Bianchetti, il volontario Sergio Abis e il presidente Armando Michelizza, responsabile dei Volontari Penitenziari dell’Associazione Beiletti — hanno portato sul palco tre sguardi diversi ma convergenti, disegnando un affresco lucido e a tratti commovente della realtà penitenziaria italiana.
L’avv. Bianchetti ha aperto il confronto con una domanda che resta sospesa nell’aria: «Cosa dice di noi il modo in cui trattiamo chi ha infranto la legge?» Richiamandosi all’articolo 27 della Costituzione, ha ricordato che la pena non può mai contraddire la dignità umana e deve tendere alla rieducazione. Ha descritto un sistema carcerario in crisi, soffocato dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e di risorse, dove troppo spesso si confonde la punizione con la giustizia. Solo il lavoro e la formazione, ha spiegato, possono rompere il ciclo della recidiva. Citando l’azione dell’Associazione Antigone, ha auspicato una giustizia meno “carcero-centrica”, capace di guardare al reinserimento e alle misure alternative. «Il grado di civiltà di un popolo si misura dal rispetto che riserva a chi ha sbagliato», ha concluso, tra gli applausi.
Con tono appassionato, Sergio Abis ha invece denunciato il fallimento pratico dell’attuale sistema penitenziario: «Il 70% dei detenuti torna a delinquere: un dato che da solo racconta tutto». Nelle carceri italiane, ha ricordato, vivono perlopiù persone fragili — tossicodipendenti, malati psichici, stranieri privi di reti familiari — lasciate senza percorsi educativi né formazione. Ma non sono mancate le storie di speranza, come quella della cooperativa La Collina in Sardegna, dove il lavoro agricolo e la vita comunitaria hanno ridotto la recidiva al 4%. «La vera giustizia non è quella che punisce, ma quella che restituisce all’uomo la possibilità di cambiare», ha sottolineato.
Infine Armando Michelizza, con oltre quarant’anni di volontariato penitenziario alle spalle, ha portato in sala la voce di chi vive quotidianamente dentro le mura. Ha raccontato il vuoto delle giornate senza scopo, l’ozio che diventa disperazione, e ha definito l’inattività “una pena nella pena”. Ma ha parlato anche di rinascite: dei laboratori di scrittura, di un giornale redatto dai detenuti, di un corso di maglia in cui un padre ha potuto confezionare un dono per la nipotina che non aveva mai conosciuto. Per Michelizza, educare significa offrire relazioni e valori, non solo regole. E ha ricordato la storia di un ex camorrista che, dopo anni di detenzione, ha trovato nel libro che ha scritto la chiave per rompere la spirale del male. «Il carcere deve tornare a essere un luogo di umanità, dove la pena diventa opportunità», ha detto.
A conclusione dell’incontro, i relatori hanno suggerito alcune letture per continuare la riflessione: Voci lontane di Tazio Brusasco, Sorvegliare e punire di Michel Foucault, Abolire il carcere di Luigi Manconi, e Giustizia, roba da ricchi di Elisa Pazé.
Dalle loro parole è emerso un messaggio limpido: il carcere è lo specchio della società che lo costruisce. Se resta un luogo di sofferenza e abbandono, significa che abbiamo rinunciato alla speranza del riscatto. Se invece diventa uno spazio di educazione, fiducia e lavoro, può trasformarsi in un laboratorio di civiltà.
La sicurezza — è stato detto — non nasce dal chiudere, ma dal comprendere; non dal punire, ma dal rieducare. Solo quando sapremo coniugare giustizia, educazione e dignità umana, potremo davvero definirci una società civile.
Si ringrazia per le foto il socio e membro del Direttivo Unitre di Cuorgnè Osvaldo Marchetti.
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