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08 Ottobre 2025 - 18:37
Domenica 5 ottobre 2025, Pont Canavese si è svegliato avvolto in una luce d’oro pallido, di quelle che sanno di fine stagione e di promesse antiche. L’alba, fredda e nitida, portava con sé l’odore denso della terra umida e del fieno tagliato da poco. I campanacci risuonavano nei vicoli come un’eco arcaica, un canto che precede la comparsa delle mandrie. Le mucche avanzavano lente, guidate da pastori dalle mani screpolate e dagli occhi chiari, abituati al silenzio e al vento. E il borgo si risvegliava, passo dopo passo, suono dopo suono.
Chi si trovava lungo le vie acciottolate poteva sentirlo davvero, quel ritmo antico: il battito regolare degli zoccoli sul selciato, il respiro caldo degli animali che si mischiava al proprio, l’odore acre del bestiame che diventava tutt’uno con quello della legna e del pane appena sfornato. Non era uno spettacolo. Era un ritorno. Una memoria collettiva che si faceva carne e movimento, una lezione di lentezza in un mondo che ha dimenticato come si cammina senza fretta.
La piazza, intanto, esplodeva di vita. Il mercatino della Transumanza era un caleidoscopio di colori e profumi: forme di toma stagionata accanto a salami avvolti nella carta ruvida, barattoli di miele dorato che catturavano la luce del sole, pani fragranti e croste dure come mani di montanaro. Ogni banco raccontava una storia. Ogni prodotto era un frammento di montagna. E intorno, tra il vociare dei venditori e le risate dei bambini immersi nel “Fienoland”, si respirava una gioia semplice, concreta, fatta di comunità e radici.
Verso la Torre Tellaria, il tempo sembrava fermarsi. Il suono cadenzato della mungitura manuale si mescolava al mormorio del fiume. Le mucche, tranquille, respiravano nell’aria fredda creando nuvole di vapore, mentre i raggi del sole filtravano tra le corna, trasformandole in sculture viventi. Ogni gesto dei pastori era un racconto: la pazienza di chi conosce la montagna, il rispetto verso la natura, l’umiltà di chi accetta il ritmo delle stagioni come legge immutabile.
Centinaia di occhi animali scrutavano i passanti, curiosi ma sereni. E in quello sguardo si leggeva una fiducia antica, la stessa che lega l’uomo alla bestia da quando esistono pascoli e sentieri. Nessuno era spettatore, tutti erano parte di un rito che non ha bisogno di palchi né di applausi. Solo di silenzio, vento e luce.
Poi, improvviso, un suono di fisarmonica si levava tra le case di pietra. Le note si intrecciavano ai campanacci, alle voci, ai passi. Una sinfonia contadina che faceva vibrare il borgo come una cassa armonica. Il sole saliva alto, e la giornata diventava festa. Le famiglie si sedevano sui muretti, gli anziani raccontavano com’era “una volta”, quando la transumanza non era un evento turistico ma una necessità vitale, un viaggio di sopravvivenza e speranza.
Ma anche oggi, in quell’ottobre del 2025, la Transumanza è molto più che folclore. È cultura viva, è ecologia praticata, è biodiversità che si muove. Mantiene aperti i pascoli, tutela i boschi, insegna ai più giovani che la sostenibilità non è uno slogan, ma un modo di vivere. È cooperazione, è comunità, è memoria collettiva che resiste al tempo e all’oblio. È la prova che un mondo diverso — più lento, più giusto, più vero — può ancora esistere.
Quando il sole ha cominciato a calare dietro le montagne e il cielo si è tinto di rame, il borgo è tornato al silenzio. Solo il tintinnio lontano dei campanacci rompeva l’aria ferma, mescolandosi al vento. La gente si è fermata a guardare le mandrie allontanarsi, come si guarda un vecchio amico che parte: con un misto di malinconia e gratitudine.
E in quell’attimo sospeso, mentre il giorno lasciava spazio alla sera, si è capito il senso di tutto: camminare con la transumanza non significa solo seguire un percorso. Significa imparare a sentire. Significa vivere al ritmo della natura, riconoscere la poesia nascosta nella fatica, la bellezza che nasce dal gesto ripetuto, dal respiro condiviso.
Quando le mandrie hanno oltrepassato il ponte e il suono dei campanacci si è fatto lontano, ognuno ha portato con sé un frammento di quella musica antica. Un profumo, un ricordo, un’emozione che resterà nel cuore come una preghiera laica alla terra.
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