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03 Ottobre 2025 - 18:18
“Impressionante!” è l’aggettivo più adatto. La manifestazione per Gaza, anzi l’insieme di manifestazioni tenutesi la sera di giovedì 2 ottobre a Cuorgnè, hanno visto una partecipazione davvero notevole, che ha sorpreso gli stessi organizzatori. La sala-conferenze dell’ex-Trinità non è riuscita a contenere tutti durante la presentazione del libro di Martina Marchiò «Brucia anche l’umanità - Diario di un’infermiera a Gaza»: oltre alle tante persone rimaste in piedi, almeno una cinquantina non ha trovato posto all’interno del locale. Quanto alla successiva fiaccolata per le vie del centro storico, la valutazione di 200-250 partecipanti, ipotizzata a caldo da alcune fonti, sembra davvero approssimata per difetto: è più probabile che si aggirassero intorno al mezzo migliaio. Da tempo non si ricordava un corteo così folto in città e così variegato, composto da persone di ogni età e di vario orientamento politico.
Accanto ai tanti cittadini c’erano i rappresentanti di tutte le sezioni ANPI dell’Alto Canavese ed il presidente dell’ANPI Provinciale Nino Boeti, gli esponenti del Comitato Pace Alto Canavese e del Circolo ARCI di Valperga ma anche l’amministrazione di Cuorgnè con in testa il sindaco Giovanna Cresto; la consigliera regionale Alice Ravinale; la comunità musulmana con il presidente nazionale delle Comunità Islamiche; una delegazione di studenti del Liceo “Aldo Moro“ di Rivarolo.
Il sindaco ha detto: “Sono giorni di preoccupazione e di ansia. Grazie a Martina di essere qui ed all’A.N.P.I. per aver esteso l’invito a tanti soggetti”.
Il presidente dell’A.N.P.I. cuorgnatese Roberto Rizzi, si è detto “commosso dalle tante presenze e da quello che è successo ieri sera e che succederà domani. All’assenza dei governi fa riscontro l’impegno dei cittadini”.
Sono concetti ribaditi da Ravinale e, dopo la fiaccolata, da Loredana Giolitto del Comitato Pace. “E’ bello - ha detto la consigliera regionale - essere qui fra tanta gente com’è stato bello ieri sera a Torino, dove le strade si sono riempite in mezz’ora, ed è commovente vedere come un silenzio durato troppo a lungo venga ora sostituito da una mobilitazione crescente. Non era scontato visto che negli ultimi anni le piazze si è cercato molte volte di svuotarle”. Analoghe le riflessioni espresse da Loredana Giolitto: “Finalmente vediamo riempirsi le piazze dopo aver cercato per quasi due anni di far prendere consapevolezza di quanto stava accadendo. E’ emozionante ma allo stesso tempo triste perché si è dovuti arrivare a quasi 80.000 morti ufficiali fra i quali 20.000 bambini. Gaza parla anche di noi, è lo specchio con cui misuriamo il livello di civiltà o inciviltà del mondo in cui viviamo. Non vogliamo più essere complici di un Occidente cinico, che si volta dall’altra parte, vende armi ai Paesi in guerra e non protegge le persone coraggiose come quelle che erano a bordo della Flottilla. Consegnare aiuti umanitari dev’essere sempre permesso, in qualunque contesto e non è giusto confondere vittime ed aggressori”.
Molto netta la posizione di Nino Boeti: “Quello che è successo ieri nei confronti della Flottilla è un atto di pirateria: se c’è un popolo proprietario di quel tratto di mare è il popolo palestinese. L’atteggiamento della nostra presidente del consiglio non è accettabile: ha rimandato in Libia un criminale di guerra con un volo di stato ed oggi vuol far pagare agli attivisti della Flottilla il biglietto aereo per rientrare in Italia!”. Un lungo e caloroso applauso ha accompagnato questa dichiarazione. Boeti ha proseguito mettendo a confronto due tragedie avvenute in tempi e luoghi differenti (nel 1943 a Roma e nel 2025 nella Striscia di Gaza) e che hanno visto coinvolti un ebreo ed una palestinese. “La dottoressa Ala al-Najjar ha perso in un bombardamento israeliano otto dei suoi nove figli ed il marito. Anche Settimio Calò aveva nove figli. Il 16 ottobre 1943, giorno della grande retata dei nazisti nel Ghetto di Roma, era uscito per comprare le sigarette. Al ritorno trovò la casa vuota. Nessuno dei suoi cari, deportati ad Auschwitz, tornò a casa. Tra loro non c’è differenza”. Boeti è scettico sulla possibilità che il Piano di Pace di Trump si concretizzi anche se si augura che questo avvenga.
Secondo la Ravinale, quello di Trump “non è un Piano di Pace ma solo una tregua, che non tiene conto dei palestinesi. Non esiste più il Diritto Internazionale, che era una delle più grandi conquiste ottenute dall’umanità, ma non possiamo rassegnarci. Dobbiamo invece chiedere giustizia ed il rispetto delle leggi”.
Interessante l’intervento, breve ma denso di contenuto, di uno degli studenti del Liceo Moro: “Noi giovani, trattati come giocattoli dalla maggior parte dell’opinione pubblica, vogliamo in primis affermare la nostra cittadinanza. Grazie alla collaborazione di alcuni insegnanti, abbiamo indetto per domani mattina una manifestazione aperta a tutti”.
Martina Marchiò ha conseguito la laurea in Scienze Infermieristiche nel 2013 e quattro anni più tardi, nel 2017, è partita per la prima missione con Medici Senza Frontiere. “Ho scelto quest’organizzazione – ha spiegato – per la sua indipendenza (non riceve fondi da alcun governo) e perché dà importanza all’informazione, fondamentale per far conoscere ciò che accade sugli scenari di guerra. A fondarla, negli Anni Settanta, era stato infatti un medico che era anche giornalista”.
Martina è stata in vari Paesi afflitti da guerre e carestie, dall’Africa all’Asia all’America Latina, e per due volte a Gaza: nel 2024 per un mese e mezzo e quest’anno da aprile a giugno. Ci sarebbe dovuta tornare nei prossimi giorni ma la partenza è stata annullata perché Medici Senza Frontiere, così come la Croce Rossa, ha sospeso l’attività, essendo venute meno le condizioni minime per continuare.
“Perché questo libro?” - le ha domandato l’intervistatrice Patrizia Rizzi. “Me l’hanno chiesto i colleghi palestinesi. Scrivo sempre quando sono in missione: lo faccio per la mia salute mentale. Hanno insistito per la pubblicazione sostenendo – ed è purtroppo vero – che la testimonianza di un’occidentale, agli occhi del mondo, vale molto di più rispetto alle loro”.
Ha però aggiunto: “Il volume era uscito dopo la mia prima permanenza a Gaza, quando avevo lavorato a Rafah e nel centro della Striscia. Quando sono tornata era cambiato tutto, a Rafah era stata fatta tabula rasa, era totalmente irriconoscibile”. Quanto a Gaza City, la sua base di quest’anno, non si fa fatica a crederle quando dice che “vi si respira un’aria da fine del mondo. È una città affamata, assetata, dove anche sanitari e giornalisti sono continuamente sotto attacco. È un assedio medievale”.
Gaza City era il luogo in cui già da prima si concentrava la maggior parte della popolazione e dove sorgevano gli ospedali meglio attrezzati. “Lì – ha spiegato – erano arrivati in massa coloro che fuggivano dal Nord della Striscia e gli abitanti dei quartieri orientali della città, presi di mira dagli israeliani. A gennaio, con la tregua, si erano aggiunti quanti erano fuggiti al Sud e volevano tornare a casa, anche se il più delle volte al posto delle case hanno trovato macerie”.
In questa città vivono tuttora (anzi sopravvivono alla peggio) 450.000 persone, nonostante gli ordini di evacuazione. “Sono rimasti gli anziani, le famiglie con troppi figli, chi è troppo povero per potersi pagare il viaggio e quelli che non si fidano più e che, dopo essersi spostati magari 15 volte, pensano che tanto vale morire lì dove si trovano”.
La situazione alimentare è terrificante in tutta la Striscia: “In questi mesi è entrata una manciata di camion con gli aiuti: ne servirebbero 600 al giorno. Dal 27 giugno, poi, con l’entrata in scena della Gaza Foundation, è stato il tracollo. Già limitare a quattro i punti di distribuzione è senza senso ma, come se non bastasse, sono del tutto disorganizzati: si aspetta per 4 o 5 ore sotto il sole cocente e senza certezza di ottenere qualcosa. Altre volte tutto si conclude in 15 o 20 minuti e i più tornano a mani vuote. In alcuni casi gli altoparlanti urlano: ‘Portate via tutto quello che potete perché fra un’ora apriremo il fuoco’. È la legge del più forte. Più di 4.000 sono stati i morti colpiti mentre aspettavano il cibo ed 11.000 i feriti. È terribile vedere la gente piangere per la fame e non poterla aiutare. Ho rifiutato il cibo terapeutico ad una donna incinta che non mangiava da quattro giorni e ad una che mi aveva gettato in braccio suo figlio dicendomi che non sapeva come sfamarlo. Le ho mandate via perché il cibo terapeutico lo si dà solo ai malnutriti e non per fare prevenzione, non possiamo permettercelo”.
La situazione negli ospedali è tremenda. “Tutti i giorni, con il triage, si decide chi salvare e chi no. Come si fa a lavorare così? Il Codice Blu è una sentenza di morte: non ti salverai e morirai per terra. Nemmeno ai Codici Rossi viene però garantita l’assistenza: quando hai 3 sale operatorie e 13 pazienti in attesa, sai che la maggior parte di essi sarà già morta quando riuscirai ad occupartene”.
Manca tutto: “Il carburante spesso scarseggia eppure è indispensabile, per desalinizzare l’acqua e per far funzionare la corrente che arriva dai pannelli solari e dai generatori a benzina. A volte manca per 4 o 5 ore e i pazienti vengono ventilati a mano, i chirurghi operano facendosi luce con le pile. In una stessa incubatrice mettevamo 5 o 6 bambini”.
Ogni giorno è peggio: “Bisogna razionare gli antibiotici e gli antidolorifici e cominciano a scarseggiare anche i farmaci per i pazienti cronici come i diabetici. Negli ambulatori si va avanti distribuendo i numeri e quando alle 7 del mattino ne hai già distribuiti 500, gli altri restano esclusi. Si riducono le prestazioni: chi ha una ferita che andrebbe medicata quotidianamente lo fai venire un giorno sì ed uno no, ben cosciente dei rischi che corrono queste persone indebolite dalla fame e che vivono in contesti nei quali l’igiene è inesistente. L’Ambulatorio per i malnutriti in agosto aveva 1500 pazienti, oggi è chiuso”.
La tragedia in corso a Gaza non è solo provocata dall’insensibilità umana e dal desiderio di vendetta ma frutto di un piano preciso. “Ho lavorato in tante zone di guerra ma lì non c’è una guerra: c’è un’occupazione e la volontà di cancellare un popolo. Non ho mai visto tanti amputati come a Gaza e tante persone colpite dai cecchini alla schiena e ai polpacci con impressionante precisione. In molti Paesi la malnutrizione è causata da carestie ed inondazioni: a Gaza no, non è arrivata per caso, è voluta e cercata. Sono stati sistematicamente messi fuori uso forni, mulini, serre, anche le barchette con cui i pescatori si procuravano il sostentamento. Le donne incinte vivono nello spavento e spesso, dopo il parto, non riescono ad allattare ma il latte in polvere non arriva. I bambini vengono uccisi mirando al cranio ed al petto. C’è un disegno preciso: fare in modo che a Gaza non esista una nuova generazione di palestinesi”.
Di fronte a questo orrore l’unico strumento a disposizione è la protesta: “Scendere nelle piazze e far sentire la vostra voce. Spero che lo farete in tanti!”.
L’incontro di Cuorgnè con Martina Marchiò era programmato da tempo. Dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni si era aggiunta la fiaccolata. Il tutto si è infine collegato alla manifestazione degli operatori sanitari, indetta per le 21 davanti all’ospedale.
“Siamo qui – ha detto il dottor Moreno Festuccia, il primo ad intervenire - come migliaia di altre colleghe e colleghi di tutt’Italia stanno facendo in 230 ospedali. Ci siamo uniti per commemorare gli operatori sanitari uccisi in questi due anni. Siamo dov’è giusto essere in questo momento tragico della storia, uniti da un filo che attraversa il dolore e la distanza, e per chiedere che si fermi il genocidio del popolo palestinese. Siamo accanto alle donne e agli uomini della Flottilla e diciamo loro grazie per un’impresa coraggiosa, disarmata, umanitaria e politica, capace di mettere a nudo le ipocrisie e le complicità dei governi come il nostro. Come sanitarie e sanitari sappiamo che non esiste neutralità davanti alla distruzione deliberata di ospedali e vite umane. Difendere la salute significa difendere l’umanità”.
Una sua collega ha aggiunto: “I colleghi di Gaza sanno di noi e nelle nostre mobilitazioni trovano forza e speranza. Sanno che qui c’è chi non si arrende all’indifferenza. Conoscono tutte le nostre proteste, anche quelle che i media silenziano”.
Un’altra operatrice ha sollecitato le istituzioni “a tutti i livelli, comprese le aziende sanitarie, ad agire con rapidità. Non accettiamo la normalizzazione di un genocidio, non ne saremo mai complici. In questo momento 361 sanitari sono detenuti senza processo e ci giunge notizia di torture, violenze, uccisioni nei loro confronti. Premiamo perché vengano liberati al più presto”.
Il numero di quelli uccisi sul posto di lavoro dopo il 7 ottobre è agghiacciante. È stato ricordato nell’ultimo degli interventi: “Secondo dati aggiornati a tre settimane fa erano 1677 ma nel frattempo se ne sono aggiunti altri 47. Si tratta di donne e uomini che hanno perso la vita mentre curavano e soccorrevano. Leggeremo i loro nomi, uno per uno, e li illumineremo per fare luce sulla Palestina”.
I nomi, accompagnati dall’età e dal ruolo che svolgevano, sono stati infatti proiettati sul muro dell’ospedale, intervallati a tratti da poesie che hanno accresciuto l’emozione dei presenti.
La mobilitazione del personale ospedaliero è una delle più significative che siano avvenute in questi ultimi mesi e dovrebbe indurre alla riflessione quanti vogliono ancora credere che ad indignarsi per le sorti del popolo palestinese siano solo le minoranze politicizzate da essi tanto deprecate.
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