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03 Ottobre 2025 - 17:15
La Chiesa che non fugge: l'esempio del Vescovo di Ivrea Daniele Salera
Non è la prima volta che accade. La storia del cattolicesimo nel Novecento è attraversata da luci e ombre: i silenzi di Pio XII sulla Shoah, letti da alcuni come prudenza diplomatica e da altri come colpevole omissione; l’impegno di Giovanni XXIII durante la crisi di Cuba, con la celebre enciclica Pacem in Terris che parlava al mondo intero, non solo ai cattolici; il ruolo di Giovanni Paolo II contro le guerre nei Balcani e contro l’intervento armato in Iraq, quando nel 2003 tuonò: “La guerra non è mai uno strumento come gli altri per regolare i conflitti”. Ogni epoca ha chiesto alla Chiesa una scelta, e non sempre la risposta è stata all’altezza. Ma oggi, davanti a Gaza, la voce che si leva da Roma e da Gerusalemme ha un timbro limpido: non si può restare equidistanti.
In Terra Santa, le sue parole hanno trovato eco immediata. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, ha guidato una delegazione ecclesiastica dentro la Striscia: un gesto tanto rischioso quanto eloquente. Accanto a lui, il vescovo ausiliare William Shomali ha raccontato che la maggior parte dei cristiani di Gaza ha perso la casa, il lavoro, la memoria stessa della propria quotidianità. “Eppure resistono”, ha detto, e in quelle parole c’è il senso profondo di una Chiesa che non abbandona i suoi fedeli, ma resta con loro anche quando il mondo li considera sacrificabili.
La parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza è diventata simbolo di questa resistenza. Una comunità minuscola – poche decine di cattolici – che oggi ospita centinaia di sfollati, cristiani e musulmani insieme. Il parroco padre Gabriel Romanelli, ferito in un bombardamento, ha scelto di non fuggire. Con lui restano sacerdoti e religiose che curano malati, distribuiscono viveri, garantiscono un tetto. “Non possiamo abbandonare il nostro popolo”, ha detto. Non è solo un atto pastorale: è la forma più radicale di testimonianza, che trasforma la fede in resistenza civile.
Le immagini arrivate dalla chiesa latina colpita il 17 luglio, dove trovavano riparo seicento persone tra cui molti bambini, sono diventate il simbolo di un dramma che non risparmia nessuno. Eppure, perfino in mezzo alle macerie, quella comunità continua a celebrare, a pregare, a resistere. Non per eroismo, ma perché questa è la sola scelta possibile quando si prende sul serio il Vangelo.
In Italia, intanto, prende forma un altro volto della Chiesa. È nato il movimento “Preti (e vescovi) contro il genocidio”, promosso da don Rito Maresca. Mille firme in poche settimane. Il loro documento non usa mezzi termini: “Non possiamo tacere davanti a massacri, violenze e violazioni del diritto internazionale”. Non è retorica clericale: è un atto politico e morale, che indica una direzione precisa. Quando una parte così ampia del clero sceglie di esporsi, significa che la coscienza ha superato la prudenza.
E poi ci sono le piazze italiane. A Ivrea, il vescovo Daniele Salera ha marciato accanto ai cittadini, ai comitati per la pace, ai medici che ricordavano i 1.670 operatori sanitari palestinesi uccisi. Torce, candele e cellulari hanno illuminato la notte davanti all’ospedale. La lettura dei nomi è stata un rito laico di memoria collettiva: il nefrologo Hammam Alloh, l’ortopedico Adnan al-Bursh, il direttore delle ambulanze Hani al-Jaafarawi. Non più numeri, ma volti. Non più statistiche, ma vite.
La differenza, rispetto ad altre stagioni, è che oggi, nel cuore di Gaza, la Chiesa non parla soltanto: agisce. Non è solo diplomazia vaticana, ma presenza concreta di parroci e religiosi che scelgono di restare sotto le bombe. Non è solo dottrina sociale, ma candele accese davanti agli ospedali, vescovi che marciano nelle piazze, comunità che si espongono apertamente. È questa la forza che sorprende: la coerenza tra parole e gesti.
Elogiare questa Chiesa non significa dimenticare le ombre del passato. I silenzi della Shoah restano una ferita. Le esitazioni di fronte ad altri conflitti sono ancora materia di discussione storica. Ma oggi, guardando a Gaza, non si può non riconoscere che la Chiesa cattolica è una delle poche istituzioni universali che ha scelto di parlare chiaro. E che lo fa non solo per i cristiani, ma per tutti: per ogni bambino ucciso, per ogni civile colpito, per ogni innocente travolto.
Ecco allora il senso ultimo di questa presenza: in un mondo che sembra rassegnato alla logica della forza, la Chiesa indica un’altra via. Non si tratta di idealismo ingenuo, ma di un dovere: perché il Vangelo non ammette equidistanze. La pace non è un bene tra tanti, ma la condizione stessa per parlare di umanità.
La lezione che arriva da Roma e da Gerusalemme, da Gaza e da Ivrea, è semplice e radicale: non basta contare i morti. Bisogna accendere una luce. E quella luce, oggi, la Chiesa cattolica la tiene accesa. Con la voce di Papa Leone XIV, con la presenza dei vescovi, con la resistenza dei sacerdoti e delle suore che non abbandonano la loro gente. È questa la Chiesa che sorprende: una Chiesa che non fugge, che non tace, che resta.
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