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Cronaca

La trappola dei contratti pirata colpisce 160mila lavoratori italiani

Oltre 200 accordi “fuori linea” nel terziario e turismo: stipendi più bassi di 8mila euro l’anno e diritti ridotti, con rischi crescenti al Sud

La trappola dei contratti

La trappola dei contratti pirata colpisce 160mila lavoratori italiani

Paghe più basse, ferie ridotte, welfare inesistente. È il quadro che emerge dall’analisi presentata da Confcommercio a Roma, nella sede di piazza G.G. Belli, dove i vertici dell’organizzazione hanno denunciato il dilagare dei cosiddetti “contratti pirata”, siglati da sigle sindacali minori e non rappresentative. Un fenomeno che supera ormai quota 200 accordi, con conseguenze concrete per circa 160.000 lavoratori e oltre 21.000 aziende.

Il dumping contrattuale, spiegano, è una vera e propria “patologia” che mina le regole del mercato e colpisce in modo particolare i comparti del terziario e del turismo, settori strategici per l’economia nazionale e per l’occupazione.

«Nei comparti del terziario e del turismo – ha ricordato Confcommercio – si contano più di 250 contratti, ma la maggioranza dei lavoratori è coperta da pochi CCNL, tra cui quello per terziario, distribuzione e servizi, il più applicato in Italia con circa 2,5 milioni di addetti. Tutti gli altri rischiano di essere strumenti di concorrenza sleale sulle spalle dei lavoratori».

Le conseguenze sono pesanti e quantificabili. Secondo l’analisi, un lavoratore inquadrato con un contratto pirata percepisce in media 8.000 euro di retribuzione annua lorda in meno rispetto al contratto di riferimento. Ma non è solo questione di salario: «Nei contratti pirata spesso non è prevista la quattordicesima mensilità e manca del tutto il pilastro della bilateralità. Quando ci sono contributi o trattenute, questi non si traducono in reali servizi per i lavoratori», è stato sottolineato.

Un ulteriore punto critico riguarda la flessibilità accentuata senza garanzie, con meno ferie e permessi, regimi di orario più pesanti e scatti di anzianità ridotti o assenti. In pratica, condizioni peggiorative mascherate da accordi contrattuali che, pur avendo veste formale, non hanno alcuna forza rappresentativa reale.

La proliferazione di questi contratti riguarda in particolare le micro-imprese e le cooperative e ha un impatto territoriale evidente: «Il fenomeno si concentra soprattutto nelle aree economicamente più fragili, in particolare nel Mezzogiorno, generando squilibri che rischiano di aggravare le disuguaglianze già esistenti».

Confcommercio individua anche una delle cause normative che hanno favorito questa dinamica: il nuovo Codice degli appalti, che introduce il concetto di “contrattazione collettiva equivalente”. Un concetto che, secondo la Confederazione, rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio: «Se l’equivalenza viene intesa come livellamento al ribasso, le tutele dei lavoratori verranno ulteriormente erose».

La posizione è netta: «La valutazione dell’equivalenza dei contratti collettivi dovrebbe essere costituzionalmente orientata, come recita l’articolo 36 della Carta, che garantisce al lavoratore una retribuzione proporzionata e sufficiente a un’esistenza libera e dignitosa».

Per arginare la deriva, Confcommercio propone di rafforzare i criteri per individuare il contratto “più protettivo” da applicare come riferimento e, soprattutto, di potenziare l’attività ispettiva. «Servono strumenti di monitoraggio più incisivi e una scheda comparativa degli accordi che valuti verticalmente le discipline a contenuto protettivo, dagli orari di lavoro ai riposi, dagli straordinari agli scatti di anzianità».

Questa scheda potrebbe poggiare sui dati già in possesso di Cnel e Inps, per offrire una lettura chiara e trasparente delle differenze contrattuali e impedire il proliferare di accordi al ribasso.

Il tema non è solo sindacale, ma sociale e politico. In un contesto di lavoro povero che riguarda ormai oltre tre milioni di italiani, il rischio è che i contratti pirata diventino un moltiplicatore di precarietà, soprattutto per i giovani e per chi lavora nei settori stagionali del turismo.

La denuncia di Confcommercio si inserisce in un dibattito più ampio, che riguarda la necessità di limitare la giungla dei contratti nazionali registrati al Cnel, più di mille, dei quali solo una parte firmati da organizzazioni rappresentative. Una frammentazione che crea spazi per accordi di comodo, funzionali più agli interessi di alcune imprese che alla tutela dei dipendenti.

Il rischio, ribadisce la Confederazione, è duplice: da un lato quello di scaricare i costi della concorrenza sul lavoro, dall’altro di alimentare un sistema opaco che penalizza le aziende corrette e i lavoratori tutelati.

«Difendere i contratti di qualità significa difendere il lavoro e la dignità delle persone – è stato rimarcato in conferenza stampa –. Non si tratta di ostacolare la libertà contrattuale, ma di distinguere tra accordi realmente rappresentativi e quelli che, al contrario, servono solo a comprimere diritti e salari».

Il messaggio è chiaro: senza controlli più stringenti e senza criteri trasparenti per l’equivalenza contrattuale, il dumping salariale rischia di consolidarsi come una prassi, minando l’intero sistema delle relazioni industriali.

Per ora la denuncia accende i riflettori su numeri che non possono essere ignorati: 200 contratti pirata, 160mila lavoratori penalizzati, 8mila euro in meno all’anno per chi li subisce. Un problema che tocca la vita concreta di migliaia di famiglie e che, senza interventi, rischia di allargarsi.

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