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Cronaca
29 Settembre 2025 - 15:56
Salvatore Gallo
È arrivata la prima condanna pesante nel processo “Echidna”, l’inchiesta che racconta, con dovizia di intercettazioni e atti giudiziari, quanto le zone d’ombra tra politica, affari e criminalità possano insinuarsi perfino nei cantieri di un’autostrada. Salvatore Gallo, 84 anni, ex manager di Sitaf ed ex volto del Partito democratico torinese, è stato condannato a 4 anni e 4 mesi di reclusione per peculato, corruzione elettorale e indebito utilizzo delle carte di pagamento. Una pena più alta perfino di quella chiesta dal pubblico ministero Valerio Longi, che aveva sollecitato due anni e dieci mesi. Segno che i giudici hanno ritenuto gravi e accertate le condotte dell’imputato, anche se non direttamente collegate alla criminalità organizzata.
I magistrati hanno ricordato come Gallo, pur privo da anni di incarichi formali, avesse mantenuto un ruolo di “sicura rilevanza” in quella che è stata definita la “zona grigia” tra economia e politica. Proprio in virtù di questa capacità di muoversi e influenzare, il tribunale del riesame di Torino aveva già disposto nei suoi confronti due misure interdittive: il divieto di esercitare uffici direttivi e il divieto di esercitare pubblici uffici per dieci mesi. Nonostante l’età avanzata, l’ex manager rimaneva un punto di riferimento in grado di coltivare rapporti di interesse, spendendo la sua rete di conoscenze come merce di scambio politico.
Il nome di Gallo compare nel fascicolo della DDA di Torino che ricostruisce le presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord-Ovest, con epicentro nei lavori dell’autostrada Torino-Bardonecchia (A32). Gallo non è stato accusato di legami con la mafia, ma le imputazioni che lo riguardano hanno comunque delineato un quadro poco edificante: l’assegnazione di almeno 16 tessere per il transito gratuito sull’autostrada a conoscenti e amici, un privilegio che nulla aveva a che fare con le necessità aziendali, e l’uso di carte di credito societarie per spese del tutto estranee a Sitalfa, la società controllata di Sitaf di cui era dirigente. Alcune tessere furono consegnate anche a medici: non solo per garantirsi visite gratuite, ma perché – scrivono gli inquirenti – erano “in grado di fare campagna elettorale in modo efficace fra il personale del loro reparto”.
La sua “tesserina”, come lui stesso la chiamava, era molto più che un lasciapassare per evitare i 12,80 euro del casello di Avigliana o Salbertran: era un simbolo di appartenenza, un modo per costruire fedeltà e riconoscenza. Non si faceva scrupolo di distribuirla anche a politici, dirigenti e persino giornalisti, creando una rete di “protetti” che, secondo i carabinieri del ROS, poteva essere mobilitata a ogni occasione utile, soprattutto in vista delle scadenze elettorali.
A questo si aggiunge l’accusa più bruciante, quella di corruzione elettorale: per favorire la candidata del Pd Caterina Greco alle comunali del 2021, Gallo avrebbe promesso e dispensato utilità in cambio di voti. Una politica clientelare in piena regola, che si spingeva fino a pretendere risultati concreti: “Se non mi trovi 50 voti ti tolgo il saluto”, diceva intercettato in una delle conversazioni agli atti. L’obiettivo era convogliare pacchetti di preferenze sui candidati a lui vicini, come Anna Borrasi, Antonio Ledda e la stessa Greco, espressioni dell’associazione Idea-To.
Non mancavano, negli atti, anche altri episodi di gestione disinvolta delle risorse: pranzi in trattoria pagati con i soldi di Sitalfa per un totale di circa 1.700 euro, un treno di gomme acquistato senza giustificazione con fondi aziendali. Il tutto in un’ottica di scambio continuo tra favori e consenso. Secondo il gip, Gallo aveva creato un sistema in cui “un favore tirava l’altro”, così da poter pretendere in cambio sostegno politico e voti.
Gallo, difeso dall’avvocato Alberto Mittone, aveva scelto il rito abbreviato “secco”, senza subordinare la richiesta ad ulteriori istruttorie, puntando su una strategia processuale rapida che avrebbe dovuto garantirgli uno sconto di pena. Aveva anche provveduto al risarcimento dei danni a Sitaf e Sitalfa, nella speranza che la restituzione delle somme contestate potesse giocare a suo favore. Ma la sentenza ha avuto un esito diverso dalle aspettative: condanna piena. Per la prima volta si è presentato in aula, ha ascoltato in silenzio la lettura della pena e non ha rilasciato alcun commento all’uscita, limitandosi a una breve discussione riservata con i suoi legali.
Il processo “Echidna” però non si esaurisce con lui. A non aver perso un’udienza è stato Roberto Fantini, imprenditore delle costruzioni stradali ed ex amministratore delegato di Sitalfa, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la procura avrebbe spalancato le porte dei cantieri autostradali a ditte vicine alla ‘ndrangheta, garantendo commesse milionarie per lavori di manutenzione e opere edili a società che in passato erano già state raggiunte da interdittive antimafia. Nonostante ciò, riuscivano comunque a ottenere gli appalti, grazie a un sistema di favori, ricatti e intimidazioni che – secondo gli investigatori – era controllato dalla famiglia Pasqua di Brandizzo, ritenuta emanazione autonoma del “locale” di San Luca in Calabria.
Fantini, assistito dagli avvocati Roberto Capra e Maurizio Riverditi, ha scelto di affrontare il rito ordinario, una strada più lunga e complessa che lo porta a sedere a ogni udienza davanti ai giudici, pronto a respingere punto per punto le contestazioni. E mentre Gallo ha preferito tacere, Fantini ha fatto della sua presenza costante in tribunale un segnale di volontà difensiva, quasi a voler dire che la sua versione deve essere ascoltata fino in fondo.
L’inchiesta “Echidna” svela così un mondo in cui politica, gestione delle infrastrutture e criminalità organizzata finiscono per incrociarsi in un intreccio pericoloso. Da un lato ci sono i reati comuni, come quelli contestati a Salvatore Gallo, che raccontano di una gestione privatistica e clientelare delle risorse pubbliche. Dall’altro le accuse più gravi che pesano su Fantini e sulla rete di imprese legate alla famiglia Pasqua, accusata di aver importato in Piemonte le logiche di controllo e intimidazione tipiche delle cosche calabresi.
La sentenza su Gallo, con i suoi 4 anni e 4 mesi, rappresenta un primo snodo giudiziario importante. Ma il processo è tutt’altro che concluso: le udienze proseguiranno nei prossimi mesi e la vicenda promette di scrivere ancora molte pagine. Un’inchiesta che, nelle intenzioni della procura, non è soltanto una cronaca giudiziaria, ma il racconto amaro di come il sistema degli appalti e delle commesse pubbliche possa diventare terreno fertile per pratiche opache, quando a fare da collante c’è la connivenza di pezzi di classe dirigente e la pressione costante delle mafie del Nord.
Caterina Greco
C’è qualcosa che in questa vicenda stride e che non può essere liquidato con un’alzata di spalle o con le solite frasi fatte sulla “fiducia nella magistratura”. Perché quando si parla del sistema messo in piedi da Salvatore Gallo, con tessere regalate a pioggia, favori dispensati come se fossero caramelle e voti trasformati in moneta di scambio, non si parla soltanto di lui e della sua condanna. Si parla di un intero modo di intendere la politica che ha trovato spazio e radici dentro il Pd torinese, e che ha prodotto rappresentanti che oggi siedono nelle istituzioni come se nulla fosse.
Tra questi c’è Caterina Greco, la candidata che proprio grazie a quel sistema – secondo i capi di imputazione – riceveva sostegno, utilità, appoggi, pacchetti di voti. Il meccanismo era chiaro: Gallo regalava “tesserine” per l’autostrada, pranzi, gomme dell’auto, carte di credito della società, e in cambio pretendeva impegno elettorale. Il tutto per far eleggere i suoi, tra cui proprio Greco, che alle comunali del 2021 beneficiò di quella rete e che oggi, eletta in Città Metropolitana, rappresenta Torino e provincia in occasioni ufficiali, presentandosi con il titolo di “istituzione”.
E non c’è solo Greco. Nel novero di quel gruppo politico cresciuto all’ombra di Gallo c’è anche Alessandro Scopel, oggi consigliere comunale a Settimo Torinese. È vero: la sua carica è successiva all’inchiesta, e dunque non può essere letta come diretta conseguenza del sistema emerso nelle carte giudiziarie. Ma resta l’impressione che la sua affermazione politica si inserisca in un solco già tracciato, in una rete che Gallo aveva saputo costruire e alimentare nel tempo. Il fatto che oggi sieda in consiglio comunale a Settimo torinese, mentre l’inchiesta ha già prodotto condanne, non può passare sotto silenzio: perché dice molto della capacità di quel sistema di rigenerarsi, di spostarsi, di continuare a vivere nelle cariche istituzionali.
Ma possiamo davvero far finta di nulla? Possiamo accettare che chi è stato al centro – magari senza colpa penale, ma certamente con un vantaggio politico – di un sistema così opaco continui a rappresentare cittadini, territori, istituzioni? In un Paese normale, chiunque fosse stato anche solo sfiorato da un’inchiesta di questo genere avrebbe già rimesso il mandato. Non per ammissione di colpa, ma per rispetto delle istituzioni. Dimettersi non significa confessare, significa capire che la fiducia dei cittadini vale più di una poltrona.
Greco non è stata imputata, ma è innegabile che il suo nome sia legato a quella rete di voti raccolti attraverso favori e pressioni. È lì, nero su bianco nelle carte giudiziarie. E oggi la vediamo partecipare a cerimonie, convegni, tagli di nastri, nel ruolo di rappresentante della Città Metropolitana. Un ruolo che richiede limpidezza, autorevolezza, trasparenza. E che invece rischia di restituire ai cittadini l’ennesima immagine di una politica che non si assume responsabilità e che tira dritto anche quando il terreno sotto i piedi trema.
Il punto non è aspettare che la magistratura dica se c’è stata responsabilità penale. Il punto è un altro: la politica dovrebbe avere un codice più alto, fatto di etica e responsabilità. Invece si continua con il solito teatrino del “non sapevo”, del “non c’entro”. Intanto, però, i voti li si è incassati, le cariche le si è ottenute e oggi si rappresentano territori e comunità.
Allora la domanda è semplice: minimo minimo, non dovrebbero dimettersi? Non dovrebbe essere Greco a farsi da parte, se non altro per rispetto dei cittadini e delle Istituzioni? E non dovrebbe Scopel riflettere seriamente sul senso della sua presenza in consiglio comunale, alla luce di un percorso politico che porta ancora l’ombra di quel sistema? Perché se il “metodo Gallo” ha potuto funzionare, è stato anche grazie a chi quei voti li ha ricevuti e a chi, pur arrivando dopo, ne ha comunque raccolto l’eredità.
Se la politica torinese vuole davvero cambiare pelle, deve iniziare da qui: dal coraggio di dire basta a chi, pur senza macchia giudiziaria, porta addosso l’ombra di sistemi che con la democrazia sana non hanno nulla a che fare.
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