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25 Settembre 2025 - 22:29
Luci sulla Palestina: cento ospedali italiani si accendono per i medici uccisi a Gaza
Il 2 ottobre, alle 21, davanti a cento o forse tutti gli ospedali italiani, tra cui Ivrea, si accenderanno torce, lampade, candele e cellulari. Sarà un gesto semplice, quasi fragile. Sarà un flash mob organizzato dalla rete #DigiunoGaza, che raccoglie oltre trentamila operatrici e operatori sanitari italiani. Luci sulla Palestina, così lo hanno chiamato. Donne e uomini che, stanchi di assistere in silenzio, hanno già scelto una volta di digiunare per Gaza e ora invitano tutti a portare la propria luce davanti agli ospedali, per dire che la medicina non può accettare di restare neutrale davanti a un genocidio. "Non in nostro nome, ripetono. La nostra professione ci impone di salvare vite, non di guardare mentre si spezzano…".
Non solo lampade, anche voci. Perché in cento piazzali verranno letti, uno a uno, i nomi dei 1.677 sanitari palestinesi uccisi in meno di due anni. Sarà una litania lunga, dolorosa, senza pause. Un elenco che non sarà mai solo un elenco, ma la somma di vite spezzate mentre curavano, soccorrevano, tentavano l’impossibile in un sistema sanitario che si stava sgretolando sotto i bombardamenti.
C’era Hammam Alloh, nefrologo, unico nel suo campo a Gaza. Dopo anni di studio all’estero avrebbe potuto restare lontano, costruirsi una carriera sicura. Invece era tornato a casa, all’ospedale Al-Shifa, perché sapeva che lì la sua presenza poteva fare la differenza. Nel novembre 2023 è stato ucciso insieme ai familiari da un bombardamento. Con lui non è morto solo un uomo, ma l’unica speranza di cura per centinaia di malati renali.
C’era Adnan al-Bursh, chirurgo ortopedico, capo del reparto ortopedia dello stesso ospedale. Operava quando le bombe facevano tremare le corsie, quando la luce saltava e gli strumenti mancavano. Arrestato e portato nelle carceri israeliane, è morto in custodia, probabilmente sotto torture. La sua vita, spesa a rimettere in piedi corpi devastati, si è conclusa tra le mura di una cella.
C’era Hani al-Jaafarawi, direttore dei servizi di emergenza e delle ambulanze. Era il filo che teneva insieme i soccorsi in una città dove le sirene urlavano senza sosta. E' stato ucciso il 24 giugno insieme a cinque colleghi. Il suo lavoro a Gaza è stato una corsa contro il tempo, eppure neppure la divisa bianca, neppure l’ambulanza con la croce rossa lo ha protetto.
E c’erano i quindici operatori sanitari raggiunti da un bombardamento vicino a Rafah lo scorso marzo. Stavano tentando di soccorrere feriti, invece sono stati sepolti in una fossa comune. Non erano militari, non portavano armi. Portavano barelle, siringhe, garze. Eppure sono diventati un bersaglio.
Le cronache parlano di cifre impressionanti: oltre agli operatori sanitari uccisi, il 95% degli ospedali fuori uso, migliaia di ambulanze e strutture distrutte. Gaza oggi è un territorio senza cure, dove i medici non sono più angeli custodi ma vittime designate. Amnesty e altre organizzazioni internazionali hanno già definito questi attacchi crimini di guerra, ma la conta continua, giorno dopo giorno.
Il flash mob del 2 ottobre nasce proprio da questa consapevolezza: che non si può più fingere che la neutralità sia una scelta possibile. Chi indossa un camice, chi presta giuramento alla vita, non può tacere. Per questo i trentamila della rete #DigiunoGaza hanno scelto di chiedere con forza che Istituzioni e aziende sanitarie italiane prendano posizione. Hanno inviato a Regioni, Aziende ospedaliere, Università e Ordini professionali uno schema di delibera che impegna a riconoscere formalmente il genocidio e a contrastarlo con ogni mezzo a disposizione. Non solo parole, ma atti concreti: interrompere collaborazioni scientifiche e commerciali con enti legati a Stati che commettono crimini, adottare criteri etici per gli acquisti, promuovere progetti di cooperazione internazionale a favore delle popolazioni vittime.
In questa prospettiva si colloca anche la campagna che chiede il boicottaggio della multinazionale farmaceutica israeliana Teva, accusata di essere complice dell’occupazione e dell’apartheid. Una scelta forte, ma accompagnata da una precisazione chiara: tutti i farmaci prodotti da Teva hanno equivalenti, il boicottaggio non mette in pericolo la salute dei cittadini. È un modo per dire che non si può curare con i profitti di chi contribuisce a distruggere.
Il 2 ottobre, dunque, non sarà una data qualsiasi. Davanti agli ospedali italiani, fianco a fianco con medici e infermieri, ci saranno cittadini, associazioni, studenti. Ognuno con una luce in mano, ognuno con un nome in mente. Accendere quella luce significherà affermare che la vita di Hammam, Adnan, Hani e di tanti altri non è stata vana. Significherà rifiutare il silenzio che fa da complice, dire che almeno una volta, per un’ora, in cento città italiane non si è stati indifferenti.
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