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24 Settembre 2025 - 01:46
Il presidente uscente Testolin
Era chiaro da settimane che la parola d’ordine per queste elezioni regionali in Valle d’Aosta sarebbe stata incertezza. Una terra che da sempre vive di equilibri fragili, di alleanze costruite e disfatte a colpi di riunioni notturne, di liste che nascono e muoiono nel giro di pochi mesi, oggi torna al voto con la consapevolezza che il 28 settembre non si eleggerà davvero un presidente, ma si scriverà soltanto la prima parte di un copione che avrà bisogno di parecchi colpi di scena per arrivare al finale.
Perché il sistema valdostano non è come gli altri: non c’è il nome del presidente stampato sulla scheda, non c’è la possibilità di scegliere un volto da contrapporre a un altro. C’è una scheda con i simboli, con le liste, con la possibilità di esprimere fino a tre preferenze — rigorosamente in equilibrio di genere — e poi tutto viene rimesso in mano al Consiglio regionale, trentacinque seggi in tutto, che dovrà trovare un accordo e nominare il presidente. Una democrazia indiretta, che rende ogni voto una scommessa e ogni candidato una pedina da spendere nei giochi di palazzo.
Le liste sono nove, i candidati complessivamente 309, con un dato che non è affatto secondario: 134 donne, segno che almeno sul piano formale qualcosa si muove, che il tema della rappresentanza di genere è ormai ineludibile. Ma fermarsi ai numeri sarebbe riduttivo. Dietro quei simboli c’è un mosaico complicatissimo. Il centrodestra si presenta con un fronte comune che mette insieme Fratelli d’Italia, Lega Vallée d’Aoste e Forza Italia – La Renaissance Valdôtaine.
Una coalizione che sulla carta sembra solida, ma che nei fatti dovrà fare i conti con le ambizioni interne e con le ombre dei candidati “impresentabili”: uno su tutti Paolo Bernardi, 53 anni, finito nella lista della Commissione parlamentare Antimafia per possibili violazioni del codice di autoregolamentazione. Un macigno difficile da scrollarsi di dosso in una campagna elettorale già breve e incerta.
La Lega, in particolare, ha presentato i suoi 35 candidati con lo slogan “La Valle d’Aosta che meriti”, giocando la carta del radicamento territoriale e del richiamo alla sicurezza, ma dovrà misurarsi con un consenso che negli ultimi anni ha mostrato segnali altalenanti. Non a caso, la recente visita di Matteo Salvini è stata letta da tutti come un’operazione di pura campagna elettorale: presenza scenica, strette di mano, qualche slogan pronto a riempire le cronache locali e poco più, un passaggio che ha confermato quanto la Valle resti per il leader leghista un tassello da presidiare in vista del voto.
Sul versante opposto ci sono i progressisti, che però non si presentano affatto compatti. Alleanza Verdi e Sinistra ha schierato volti noti come Chiara Minelli e Manuela Nasso, puntando su temi ambientali e sociali, mentre Valle d’Aosta Aperta tenta di raccogliere attorno a sé un fronte radicale e popolare che include Movimento 5 Stelle, Rifondazione e pezzi di sinistra diffusa. In mezzo, si muovono formazioni civiche e autonomiste come Valle d’Aosta Futura, che ha fatto della parola “democrazia” la sua bandiera e cerca di intercettare un elettorato deluso dai partiti tradizionali. Ma proprio l’area autonomista, storicamente decisiva in Valle, è quella che più rischia di spostare gli equilibri. Senza un campo largo capace di unire queste realtà, la partita si gioca tutta sulle alleanze post voto, con la possibilità che gli autonomisti decidano chi far sedere sulla poltrona più importante della Regione.
C’è poi un aspetto che rende il quadro ancora più complesso: secondo la legge regionale 21/2007, l’attuale presidente della Regione Renzo Testolin e il vicepresidente Luigi Bertschy, se rieletti, “non potrebbero ricoprire nuovamente incarichi nella prossima Giunta regionale”. Una lettura che non impedisce loro la candidatura, ma che limita la possibilità di ritornare a guidare l’esecutivo. Un paradosso che aggiunge incertezza a incertezza: perché i cittadini potrebbero trovarsi a votare ancora per Testolin, ben sapendo che — stando a quella norma — non potrà più essere presidente. Un nodo giuridico e politico che ha già acceso polemiche e interpretazioni divergenti, e che rischia di condizionare le trattative del dopo voto.
Il clima, intanto, è tutt’altro che sereno. I commentatori parlano di un voto nel segno del “tutti contro tutti”, dove non c’è un vero favorito e in cui persino i pronostici diventano un esercizio complicato. Non a caso non circolano sondaggi affidabili: la frammentazione è tale che azzardare percentuali significherebbe rischiare la figuraccia. Eppure, i partiti locali sanno che molto si giocherà sull’affluenza, sulla capacità di portare i propri elettori al seggio in una domenica d’autunno che potrebbe scoraggiare molti. Non dimentichiamoci che si vota anche in 65 Comuni, con sindaci e consigli comunali da eleggere, e che quindi l’effetto traino delle amministrative potrebbe avere un impatto non secondario sulle regionali.
La grande incognita, però, resta il dopo. Perché in Valle d’Aosta nessun partito da solo può governare. Servono i numeri in Consiglio, servono accordi, servono patti che spesso si fanno e si disfano in fretta. Lo sa bene chi conosce la storia politica della regione, costellata di giunte durate poco più di un anno e di presidenti costretti a dimettersi per la caduta della maggioranza. Questa volta non sarà diverso: chiunque uscirà vincente dovrà subito sedersi a un tavolo e cercare convergenze. Non solo con i partiti affini, ma anche con quelli che fino a ieri erano avversari. È il paradosso valdostano, che trasforma ogni elezione in un lungo dopo-elezioni, fatto di trattative e compromessi.
Sul piano dei temi, poco o nulla è cambiato rispetto alle ultime campagne. Si parla di sanità, di trasporti, di ambiente, di autonomia. Ma il rischio concreto è che i programmi restino slogan e che a contare, ancora una volta, siano gli equilibri di potere. Eppure, la Valle d’Aosta avrebbe bisogno di risposte vere: ospedali che funzionino, collegamenti ferroviari degni di questo nome, una gestione turistica capace di valorizzare il territorio senza svenderlo. Invece, il dibattito resta ingessato, con i candidati impegnati più a difendere le loro posizioni che a proporre soluzioni. Persino la vicenda dei “candidati impresentabili” rischia di diventare un dettaglio nel tritacarne della politica valdostana, dove tutto viene assorbito e dimenticato in fretta.
Il 28 settembre sarà allora solo un primo atto. I valdostani depositeranno la loro scheda nell’urna, sapendo che il loro voto conterà, sì, ma non deciderà davvero chi governerà. Perché a decidere sarà il Consiglio, sarà la politica dei corridoi e delle trattative. E questo, più di tutto, rischia di allontanare i cittadini, di alimentare la sfiducia. Ma è così che funziona in Valle, ed è così che si prepara a funzionare ancora una volta. Le elezioni sono ufficialmente “aperte”, i candidati hanno riempito i manifesti e i comizi, ma il finale resta scritto a matita, pronto a essere cancellato e riscritto mille volte nelle settimane successive. E allora, davvero, l’unica certezza è che la Valle d’Aosta entra in questa campagna con un grande vuoto: quello di una guida chiara, di un progetto condiviso, di un nome capace di unire. Tutto il resto è nebbia che sale dalle montagne, e che avvolgerà ancora a lungo la politica valdostana.
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