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19 Settembre 2025 - 00:59
A Torino seimila tonnellate di amianto a pochi centimetri dalle case
A guardarlo oggi, il quartiere di Italia ’61 appare come uno dei simboli della Torino moderna: grandi viali, parchi, un’area nata per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia e restituire alla città un volto di progresso. Eppure sotto quel manto verde, lungo corso Unità d’Italia, non c’erano soltanto radici e terreno. C’era un passato nascosto, pesante e tossico: tremila metri cubi di suolo contaminato da amianto, pari a circa seimila tonnellate di materiale da bonificare.
Il ritrovamento è avvenuto durante gli scavi per l’idropolitana, la nuova condotta che dovrà raccogliere le acque piovane. Gli operai della Smat, procedendo con le ruspe, hanno incontrato strati di terra intrisi di frammenti di fibrocemento. Un’anomalia subito segnalata e che ha imposto l’arresto immediato dei lavori. Da lì, un protocollo severo: sigillare il terreno in sacchi da un metro cubo, accatastarli ordinatamente in cantiere e organizzare il trasporto verso una discarica attrezzata del Novarese, una delle poche strutture in grado di trattare questo tipo di materiale pericoloso.
Una scena surreale: migliaia di sacchi bianchi, disposti uno accanto all’altro come un inventario silenzioso del veleno sepolto, pronti a partire per essere smaltiti in sicurezza. Giorno dopo giorno, camion dopo camion, quei sacchi hanno lasciato Italia ’61, restituendo al quartiere l’immagine di un prato urbano ma con la consapevolezza di un passato che non smette di riaffiorare.
Per capire come sia finito lì l’amianto, occorre guardare indietro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Torino era un campo ferito: case bombardate, capannoni industriali rasi al suolo, cumuli di detriti che ostruivano le strade. Smaltire quelle macerie era un problema enorme, e la soluzione più rapida fu utilizzarle come materiale di riempimento per zone paludose e instabili. Millefonti, l’area dove sorge oggi Italia ’61, era allora poco più che un acquitrino. Versare detriti per consolidarlo sembrava una scelta ovvia. Nessuno, all’epoca, immaginava che tra quelle macerie ci fossero tonnellate di fibrocemento, il materiale da costruzione contenente amianto che negli anni a venire si sarebbe rivelato altamente nocivo.
Quella che allora era considerata una scorciatoia tecnica oggi rappresenta un’eredità tossica. Con il passare dei decenni, il fibrocemento si degrada e le sue fibre si disperdono nel terreno, diventando un pericolo se inalate. È per questo che la bonifica non si limita a raccogliere i frammenti visibili, ma coinvolge l’intera massa di suolo circostante, trattata come un tessuto malato da rimuovere chirurgicamente.
Il caso di corso Unità d’Italia non è un episodio isolato. Torino è da decenni una città che convive con la questione amianto. Le bonifiche hanno riguardato scuole, ospedali, uffici pubblici e fabbriche dismesse. Dalla Eternit di Casale Monferrato — simbolo della tragedia dell’amianto in Italia — fino ai capannoni industriali torinesi, la lotta per liberarsi di questo materiale ha attraversato generazioni.
Nei palazzi pubblici gli interventi hanno via via ridotto la presenza di coperture e pannelli in fibrocemento. Diversa la situazione per gli immobili privati: sottotetti, cantine, cortili, vecchie tettoie, perfino serramenti sigillati con mastici contenenti amianto. In molti casi, l’amianto è ancora lì, invisibile ma presente, perché smaltirlo costa e perché non tutti i proprietari sono disposti o in grado di affrontare le spese.
E poi ci sono le discariche abusive. Rifiuti edilizi contenenti amianto abbandonati nei campi, lungo le strade secondarie o nei cortili dei capannoni dismessi. Qui si annida oggi il pericolo maggiore: materiali frantumati, fibre esposte, un rischio reale per chi vive o lavora nelle vicinanze. Ogni tanto le cronache restituiscono l’immagine di tetti smantellati di notte, lastre lasciate in sacchi neri ai bordi delle provinciali, carichi scaricati nei boschi per evitare i costi dello smaltimento regolare.
Che proprio a Italia ’61 sia riemerso questo problema è un paradosso amaro. L’area fu progettata negli anni Sessanta come vetrina del progresso, con padiglioni moderni, ampi spazi verdi e il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi. Oggi, dietro quell’immagine di quartiere ordinato e celebrativo, si nasconde la prova materiale delle scorciatoie del passato.
Non ci sono mai stati rischi immediati per i residenti, assicurano i tecnici. Le fibre di amianto diventano pericolose solo se inalate, e sotto terra restavano confinate. Ma la sola presenza di quell’enorme quantità di terreno contaminato racconta quanto la città continui a fare i conti con le proprie cicatrici.
Il cantiere dell’idropolitana riprenderà solo quando l’ultimo sacco sarà stato trasferito e smaltito. Fino ad allora, il quartiere resta a metà: lavori sospesi, terreno messo in sicurezza, un cronoprogramma che slitta. Non è la prima volta che infrastrutture moderne si scontrano con il passato nascosto nel sottosuolo urbano. In questo caso, la città ha dovuto fermarsi per fare i conti con i resti delle sue stesse macerie.
E forse la vera lezione è proprio questa: Torino non può più permettersi di ignorare ciò che è stato sepolto in fretta, pensando che restasse dimenticato. Italia ’61, con i suoi seimila sacchi di amianto in viaggio verso Novara, è l’ennesimo promemoria di un passato che torna sempre a bussare.
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