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17 Settembre 2025 - 00:19
La consigliera regionale Disabato
Martedì 16 settembre, in Consiglio regionale il tema del fine vita è tornato a irrompere con forza, portando con sé tutta la complessità di un dibattito che in Piemonte da anni resta sospeso. A innescarlo è stato un fatto concreto, impossibile da ignorare: a giugno l’ASL TO4, che copre un ampio territorio tra Chivasso, Ivrea, Settimo Torinese e Ciriè, ha ricevuto la prima richiesta formale di suicidio medicalmente assistito mai presentata nella nostra Regione. Una richiesta che ha costretto l’azienda sanitaria a muoversi senza riferimenti normativi regionali, istituendo una commissione interna composta da undici figure professionali — dal medico palliativista al neurologo, dal medico legale allo psichiatra, fino al farmacista e allo psicologo — incaricata di valutare entro 45 giorni se il paziente risponde ai criteri fissati dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 242 del 2019, la cosiddetta sentenza Cappato. Una sentenza che ha riconosciuto, in presenza di condizioni precise, la possibilità di accedere al suicidio assistito: patologia irreversibile, sofferenze ritenute intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, capacità di decisione libera e consapevole.
È proprio questo precedente concreto ad aver spinto le consigliere regionali Valentina Cera di Alleanza Verdi Sinistra e Sarah Disabato del Movimento 5 Stelle a presentare due interrogazioni in Aula, che hanno dato voce a una domanda precisa: perché il Piemonte non ha ancora adottato linee guida, lasciando che un tema così delicato sia affrontato alla cieca dalle singole aziende sanitarie? Cera ha ricordato che nel 2023 è stata dichiarata ammissibile la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni, sostenuta da 11.438 firme, ma da allora non si è mosso nulla. Disabato ha sottolineato come proprio l’ASL TO4 abbia dovuto “fare da sola”.
Messo con le spalle al muro, l’assessore alla Sanità Federico Riboldi ha provato a rassicurare.
«Stiamo procedendo all’elaborazione delle linee di indirizzo regionali in materia di fine vita per le aziende sanitarie, alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale».
Una dichiarazione che ha il sapore di una promessa tardiva, arrivata a sei anni dalla sentenza Cappato. Lo stesso Riboldi ha riconosciuto che «la sentenza amplia significativamente i margini dell’autodeterminazione individuale oltre la linea del diritto di rifiutare o interrompere trattamenti sanitari» e che la Regione è «ben consapevole della rilevanza e della delicatezza della materia, che vede la perdurante assenza di una normativa nazionale alla quale la giurisprudenza, anche costituzionale, non può sostituirsi». Ha quindi assicurato che «la Direzione sanità sta dedicando la massima e solerte attenzione affinché vi sia un testo conforme alle pronunce giurisprudenziali e alle normative vigenti. Non appena il documento sarà finalizzato e ufficialmente approvato, sarà prontamente reso disponibile nel rispetto delle procedure».
Le opposizioni, però, non si sono accontentate. Cera ha ribadito che il ritardo della Regione è ingiustificabile, considerato il peso delle firme raccolte a sostegno della legge popolare. Disabato è stata ancora più netta: «L’apertura da parte di Riboldi è tardiva. Se nella scorsa legislatura il centrodestra avesse approvato la proposta di legge di iniziativa popolare dell’Associazione Luca Coscioni, sostenuta da migliaia di firme, oggi non ci troveremmo in questo limbo».
La capogruppo pentastellata ha parlato senza giri di parole di un dibattito affossato dal centrodestra e ora riaperto solo per inseguire la realtà.
«Dopo aver affossato il dibattito, adesso l’assessore fa dietrofront e dice di voler stilare le linee di indirizzo, che peraltro non sono mai arrivate, nonostante gli annunci di chi lo ha preceduto. Ci chiediamo come reagiranno i colleghi del centrodestra che, in precedenza, hanno messo la testa sotto la sabbia. Sarebbe opportuna a questo punto una presa di posizione chiara da parte del presidente Cirio, dal momento che i partiti che lo sostengono pare non siano in grado di dare risposte ai cittadini piemontesi». E ha concluso rilanciando la necessità di riportare in Aula la proposta di legge di iniziativa popolare, «rimediando a un grande errore del passato».
Il nodo è tutto qui: mentre la politica continua a promettere linee guida che non arrivano mai, un’azienda sanitaria piemontese è stata costretta a prendere in mano la situazione, creando un precedente che potrebbe aprire la strada ad altri casi. È l’immagine di una Regione che rincorre i fatti invece di guidarli, di un sistema che lascia i cittadini più fragili in balia di decisioni improvvisate, quando invece servirebbero certezze, procedure uniformi e diritti garantiti.
La vicenda dell’ASL TO4 è il campanello d’allarme che costringe il Piemonte a fare i conti con il tempo perso: ogni giorno senza regole chiare rischia di pesare come un macigno su chi chiede soltanto dignità e la possibilità di scegliere come vivere e come morire.
Sei anni
La Consulta si è espressa nel 2019. Sei anni fa. Ha detto che il suicidio assistito è possibile, a certe condizioni. Precise, chiare, scolpite.
Nel 2023 oltre undicimila piemontesi hanno firmato per una legge di iniziativa popolare. Due anni fa. Una legge che non era obbligatoria discutere, ma che era doveroso discutere. Non è stata discussa.
Martedì in Consiglio regionale l’assessore Riboldi ha annunciato che la Regione “sta procedendo all’elaborazione delle linee di indirizzo”. Sta procedendo. Dal 2019. Sei anni.
Nel frattempo l’Asl To4 ha ricevuto a giugno la prima richiesta formale in Piemonte. Non potendo aspettare altri sei anni, ha istituito una commissione per decidere. Undici specialisti, quarantacinque giorni di tempo, un cittadino che aspetta. E che non può sentirsi rispondere “stiamo procedendo”.
La Regione, invece, è “ben consapevole della delicatezza della materia” e dedica “massima e solerte attenzione”. Massima e solerte. Sei anni.
Cera ha ricordato le firme. Dimenticate. Disabato ha ricordato il dibattito. Affossato. Il centrodestra dice che ci vuole un testo. Ora sì. Prima no. Domani, vedremo.
E intanto un cittadino ha chiesto di morire. E un’Asl ha dovuto fare da sola. Senza legge regionale, senza linee guida, senza indirizzi. Ha fatto quello che la politica non ha fatto. Ha deciso di decidere.
Il punto è semplice. In Piemonte per chiedere di morire bastano un modulo e un medico. Per avere una regola chiara servono sei anni, una legge popolare ignorata, un assessore che elabora e una Regione che è massima e solerte. Ma immobile.
Sei anni. Sei anni per non decidere. Sei anni per procedere. Sei anni per elaborare. E un cittadino che non ha sei anni da aspettare.
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