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Campi rom, il paradosso italiano: a Ivrea resta in piedi un modello nato per escludere

Nati negli anni Novanta come soluzione “temporanea”, i campi rom sono diventati ghetti permanenti. L’Europa chiede di superarli, ma in Italia – e a Ivrea – resiste un sistema costoso e discriminatorio

Campi rom, il paradosso italiano: a Ivrea resta in piedi un modello nato per escludere

Al campo del quartiere San Giovanni di Ivrea

I campi rom in Italia non sono un’antica tradizione né una necessità culturale delle comunità rom e sinte. Sono, piuttosto, una costruzione politica, una soluzione inventata dal nostro Paese tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quando le amministrazioni locali, con il sostegno delle Regioni, decisero che era più semplice concentrare famiglie intere in aree recintate, lontane dai centri abitati, piuttosto che inserirle nei normali percorsi di edilizia popolare.

Così nacque un modello che il resto d’Europa non ha mai conosciuto: un sistema che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere provvisorio, ma che col passare degli anni è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica dell’esclusione italiana.

La giustificazione ufficiale? Rispondere a presunti bisogni “nomadi”. Si diceva che i Rom avessero bisogno di roulotte, di spazi dedicati, di aree attrezzate. In realtà, gran parte delle comunità sinte italiane era già stanziale da generazioni. Non avevano alcuna esigenza di nomadismo, ma le leggi regionali approvate all’epoca per la cosiddetta “tutela delle popolazioni nomadi” finirono per finanziare la costruzione di veri e propri ghetti, ribattezzati con eufemismo campi. Dovevano essere un ponte verso l’inclusione, ma si sono trasformati in muri che dividono, luoghi dove spesso i diritti sociali sono rimasti sospesi, mentre si moltiplicavano le tensioni con i quartieri circostanti.

la villa

La villa di Giovanni Lagaren a Ivrea

Il Piemonte ha seguito la stessa logica. Anche a Ivrea, negli anni Novanta, venne creato un campo, che poi si è "allargato" in terreni di proprietà privata. L’obiettivo era “mettere ordine” nella presenza di famiglie rom che già vivevano in insediamenti spontanei, garantendo loro una sistemazione con acqua, luce e servizi igienici, ma lontana dal tessuto urbano. Una soluzione che avrebbe dovuto essere temporanea e che invece è diventata stabile. È l’esempio lampante di come una decisione nata per tamponare un problema abbia finito per radicarlo nel tempo, trasformando un’emergenza in un sistema.

Eppure, mantenere i campi costa. Ci sono spese per i collegamenti alle reti idriche ed elettriche, per i servizi sociali. Alcuni Comuni italiani hanno speso negli anni milioni di euro per tenere in piedi queste aree, senza ottenere risultati significativi in termini di inclusione. Anzi, i campi hanno contribuito a consolidare lo stereotipo di un popolo separato, “noi” da una parte e “loro” dall’altra, un confine invisibile che ha generato diffidenza e conflitto sociale.

Non è un caso che l’Europa guardi con sospetto a questo modello. Una Raccomandazione del Consiglio europeo del 2021 (C 93/01) ha fissato un obiettivo chiaro: ridurre almeno di un terzo entro il 2030 gli insediamenti abusivi e i campi privi di soluzioni abitative dignitose. Non c’è un obbligo giuridico vincolante che imponga all’Italia di chiuderli tutti, ma c’è una forte pressione politica e morale a superarli, perché sono considerati una forma di ghettizzazione incompatibile con i principi di uguaglianza e diritti fondamentali. L’Europa non dice “chiudete e basta”, ma chiede percorsi concreti di inclusione: case popolari, progetti di housing sociale, microaree familiari, distribuzione abitativa che eviti la concentrazione etnica. Non si tratta di sgomberare senza criterio, ma di accompagnare le famiglie verso una vita normale, in quartieri normali.

Un esempio viene da Roma, dove il Comune ha avviato un piano per superare completamente i campi entro il 2030, recependo la strategia europea e trasformandola in obiettivo locale. Altre città hanno seguito strade simili, chiudendo progressivamente i campi e collocando le famiglie in appartamenti popolari. In questi casi, il superamento è stato faticoso, ma ha dato frutti, con un calo delle tensioni e un aumento dell’inclusione scolastica e lavorativa. Ma non sempre è così: spesso, di fronte alla difficoltà di trovare soluzioni abitative alternative e alla protesta dei residenti, i Comuni scelgono la via più semplice, quella dell’immobilismo, lasciando i campi al loro destino.

E qui si apre la contraddizione più grande. Quando le amministrazioni tentano sgomberi senza offrire alternative concrete, interviene il Consiglio d’Europa, che più volte ha fermato operazioni del genere, ricordando che prima di sgomberare occorre garantire soluzioni dignitose. In caso contrario, si rischia di violare la Carta sociale europea. La stessa Italia è stata richiamata per sgomberi avvenuti senza piani di ricollocazione adeguati. Un paradosso che mostra quanto il tema sia rimasto sospeso tra promesse di inclusione e politiche di emergenza.

Il caso di Ivrea si inserisce perfettamente in questo quadro. Quel campo comunale, creato negli anni Novanta, è figlio di un’epoca che credeva nelle soluzioni tampone e che non ha mai avuto il coraggio di affrontare la questione con visione di lungo periodo. Oggi la città si ritrova con un’eredità scomoda: un’area che divide e abusi edilizi a non finire.

L’alternativa sarebbe chiara: avviare percorsi di inclusione abitativa vera, case popolari distribuite, programmi di lavoro e di scuola per i ragazzi, e chiudere definitivamente un modello che l’Europa considera non solo inadeguato, ma discriminatorio.

La storia dei campi rom dimostra che le scorciatoie non pagano. Si sono creati spazi che dovevano essere provvisori, ma che sono diventati gabbie permanenti, tramandate di generazione in generazione. L’Italia è l’unico Paese europeo che ancora li mantiene come sistema. Ivrea, come tante altre città, si trova davanti a un bivio: continuare con la comodità di un recinto che separa o avere il coraggio di costruire finalmente percorsi di integrazione. La scelta non è solo amministrativa, ma culturale e politica. L’Europa chiede di abbattere quei muri invisibili. Sta ai Comuni decidere se vogliono scrivere una pagina nuova. E a questo punto la domanda è: le assessore agli affari sociali Gabriella Colosso e Patrizia Dal Santo ne saranno capaci?

Rom e Sinti in Italia: pochi nei campi

Quando si parla di Rom e Sinti in Italia, il dibattito pubblico tende subito a concentrarsi sui cosiddetti campi, come se quella fosse la condizione normale della loro esistenza. Ma i numeri raccontano un’altra storia, molto diversa da quella che spesso passa nelle cronache quotidiane. In Italia vivono tra 90.000 e 170.000 persone di origine rom e sinta, secondo le diverse stime elaborate da istituti di ricerca, associazioni e organismi internazionali. Non si tratta di un popolo “estraneo”: circa 70.000 di loro sono cittadini italiani a tutti gli effetti, presenti da generazioni sul nostro territorio.

Eppure, il tema rimane avvolto in un alone di pregiudizi. Nell’immaginario collettivo, il rom è legato alla roulotte, al campo, alla marginalità. Un’immagine che ha poco a che fare con la realtà. Perché la grande maggioranza vive in case come chiunque altro, spesso in alloggi popolari o in appartamenti privati, magari con lavori precari e vite difficili, ma fuori dai riflettori. I dati più recenti parlano chiaro: soltanto tra 11.000 e 15.000 persone, cioè appena il 6-10% del totale, vive ancora in insediamenti monoetnici, le baraccopoli formali e informali che l’Italia, unica in Europa, ha costruito e mantenuto dagli anni Ottanta in poi.

Il rapporto annuale dell’associazione 21 Luglio, pubblicato nel 2024, fotografa una realtà in rapido mutamento: “Oggi sono 11.100 i rom e i sinti che vivono in campi o insediamenti monoetnici, in calo del 53% rispetto al 2016”. Una diminuzione significativa, che mostra come molti abbiano trovato soluzioni abitative stabili e come, nonostante l’immobilismo politico, la realtà sociale vada lentamente in un’altra direzione. Ma dietro al dato resta la contraddizione: gli insediamenti ancora attivi, circa 119 in 75 Comuni italiani, continuano a essere veri e propri ghetti istituzionalizzati, dove la marginalità diventa regola.

La stessa Istat, nel biennio 2019–2020, aveva censito 373 insediamenti abitati da circa 15.000 persone, confermando che il fenomeno esiste, ma riguarda una parte minima della popolazione rom e sinta complessiva.  

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