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23 Agosto 2025 - 01:17
Monte dei Paschi di Siena
Era data ormai per spacciata, ridotta a simbolo del declino bancario italiano, la Banca Monte dei Paschi di Siena, eppure oggi è diventata la protagonista assoluta della stagione di M&A più clamorosa che il sistema creditizio nazionale abbia visto negli ultimi decenni. La domanda di partenza, che molti lettori si stanno facendo in queste settimane, è semplice e brutale: com’è possibile che la banca che solo pochi anni fa rappresentava un salvataggio disperato da parte dello Stato, con i contribuenti a farsi carico di miliardi di perdite e scandali, sia ora nelle condizioni di lanciare un’offerta pubblica di scambio su Mediobanca, un’istituzione fino a ieri considerata inespugnabile? La risposta, naturalmente, è complessa e affonda le radici in un percorso lungo più di quindici anni, fatto di errori industriali, crolli finanziari, commissariamenti politici, suicidi eccellenti, processi giudiziari, ma anche di paziente ristrutturazione e, negli ultimi due anni, di una sorprendente capacità di tornare a produrre utili e a distribuire dividendi. Un percorso che oggi appare come la parabola più estrema del capitalismo bancario italiano: dalla rovina alla rinascita, fino alla metamorfosi in attore aggressivo e “predatore” in un risiko che ridisegnerà l’assetto del settore.
Per capire come si è arrivati a questo punto, occorre tornare al 2007, l’anno in cui MPS decise di acquistare Banca Antonveneta da Banco Santander per oltre 9 miliardi di euro cash, operazione che già allora parve scriteriata, ma che in seguito si è rivelata la più disastrosa della storia bancaria recente. Era il tempo della finanza euforica, con i mercati drogati dal credito facile, e il management di Rocca Salimbeni pensò che espandersi a Nord Est fosse la chiave per entrare stabilmente nel gruppo delle grandi banche italiane. Ma quell’operazione, conclusa in fretta e senza la dovuta due diligence, avrebbe innescato un effetto domino: il peso dell’acquisizione, sommato allo scoppio della crisi finanziaria del 2008, alle prime maxi-perdite su derivati tossici e all’incapacità di reggere la competizione con i colossi come Intesa Sanpaolo e UniCredit, trasformò la banca senese in un malato cronico.
Dal 2012 in avanti, MPS è entrata in una spirale di aumenti di capitale mostruosi – oltre 15 miliardi complessivi bruciati sul mercato – e di salvataggi pubblici sempre più intrusivi. La Commissione europea autorizzò il cosiddetto “aiuto di Stato” condizionato alla ricapitalizzazione precauzionale, e lo Stato italiano entrò direttamente nel capitale della banca con una quota che, nel momento più drammatico, arrivò al 64%. Per anni la banca non fu altro che una macchina di smaltimento di crediti deteriorati: Npl per decine di miliardi vennero ceduti a prezzi da saldo, operazioni dolorose ma inevitabili per rimettere in carreggiata i conti. In parallelo si susseguirono processi penali, con condanne a ex manager per falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza, scandali come quello dei derivati “Alexandria” e “Santorini”, fino al clima plumbeo dei suicidi che colpirono alcuni ex dirigenti legati alle vecchie gestioni. Tutto questo alimentò l’immagine di MPS come di una banca “fallita in vita”, tenuta artificialmente in piedi dal Tesoro e destinata, prima o poi, a essere ceduta a pezzi.
Ma la realtà degli ultimi anni ha ribaltato questa narrativa. L’opera di ristrutturazione, avviata sotto la pressione di Bruxelles e della Bce, ha dato frutti tangibili: tagli draconiani al personale, chiusura di centinaia di filiali, riduzione del costo del funding, efficientamento dei processi digitali, fino a una ripresa del margine di interesse grazie alla risalita dei tassi della Bce. E così, dal 2022 in avanti, MPS ha cominciato a mostrare segni di vitalità. Nel 2023 i numeri hanno sorpreso tutti: utile netto superiore ai 2 miliardi di euro, cost/income ratio in discesa, ritorno all’erogazione del dividendo con 315 milioni distribuiti agli azionisti. Una metamorfosi che ha permesso allo Stato di ridurre progressivamente la propria quota, scesa sotto l’11%, attraverso cessioni di pacchetti consistenti di azioni sul mercato. Non più, quindi, una banca zavorra per i conti pubblici, ma un soggetto di mercato appetibile, capace di attrarre interesse e perfino di ribaltare i rapporti di forza storici.
È in questo contesto che si inserisce l’operazione più clamorosa: l’offerta pubblica di scambio lanciata da MPS a gennaio 2025 nei confronti di Mediobanca, valutata 13,3 miliardi di euro. L’OPS, interamente in azioni, ha un obiettivo ambizioso: creare un polo bancario capace di competere con i big del credito, ma con una vocazione ibrida, unendo la tradizione retail di MPS alla potenza dell’investment banking e del private banking di Mediobanca. Una mossa che nessuno si aspettava: la “preda” storica che diventa cacciatore. Non a caso il consiglio di amministrazione di Mediobanca ha bollato immediatamente l’operazione come “ostile, non concordata e distruttiva di valore”, sostenendo che mancasse qualsiasi razionalità industriale. Ma la verità è che dietro questa operazione c’è molto più di una semplice logica di business: c’è un gioco di potere che coinvolge i grandi azionisti italiani, dai Caltagirone alla Delfin della famiglia Del Vecchio, i quali hanno mostrato crescente insofferenza verso la gestione Mediobanca e che oggi sembrano disposti a favorire un cambio di scenario.
Il tentativo di Mediobanca di difendersi con un contromossa, ossia l’acquisizione di Banca Generali per 6,3 miliardi, si è rivelato un boomerang. L’assemblea degli azionisti del 21 agosto 2025 ha bocciato clamorosamente l’operazione, con solo il 35% dei voti a favore e la maggioranza silenziosa dei grandi azionisti che si sono astenuti o si sono schierati contro. È stato il segnale più evidente che lo zoccolo duro del capitale non era disposto a sostenere i vertici di Piazzetta Cuccia a ogni costo. Nel frattempo, MPS ha continuato a raccogliere adesioni alla propria offerta, superando la soglia del 30% delle azioni e avvicinandosi al target chiave del 35%, livello che sancirebbe la validità formale dell’OPS e la possibilità concreta di cambiare gli equilibri. La Consob ha dato il via libera al prospetto, e il periodo di adesione è partito il 14 luglio, con termine fissato all’8 settembre. In queste settimane, insomma, si decide non solo il destino di due banche, ma l’assetto del potere finanziario in Italia.
Il governo, pur mantenendo una posizione ufficialmente neutrale, gioca inevitabilmente un ruolo dietro le quinte. Lo Stato è ancora azionista di MPS e non può permettersi che l’operazione fallisca o si trasformi in un nuovo bagno di sangue finanziario. Al tempo stesso, la Bce e la vigilanza europea osservano con attenzione, consapevoli che un matrimonio MPS-Mediobanca potrebbe creare un “terzo polo” bancario con asset per oltre 400 miliardi, posizionandosi dietro i giganti Intesa e UniCredit ma con una identità diversa, più sbilanciata verso l’investment banking e la gestione del risparmio. Le sinergie prospettate parlano di 3 miliardi di euro, ma il vero tema è politico-industriale: chi controllerà questo nuovo soggetto, quali equilibri si creeranno tra i grandi azionisti privati e lo Stato, e come reagirà il mercato finanziario internazionale a un’iniziativa che appare tanto sorprendente quanto rischiosa.
La parabola di MPS è dunque diventata un caso da manuale di finanza: da “banca zombie”, mantenuta in vita solo dalle trasfusioni di denaro pubblico, a predatore aggressivo in grado di insidiare un colosso come Mediobanca. In questa trasformazione c’è la storia di un capitalismo italiano sempre oscillante tra rendite di posizione e colpi di teatro, tra errori macroscopici e resurrezioni inattese. Oggi MPS rappresenta l’esempio di come, in un sistema bancario iper-regolato e spesso imbrigliato dalla politica, la combinazione di condizioni di mercato favorevoli (i tassi alti che gonfiano i margini), di pulizia dei bilanci e di convergenza di interessi tra grandi azionisti possa ribaltare un destino che pareva già scritto. Quello che fino a ieri era considerato un “bidone di Stato”, insomma, si trova ora a dettare l’agenda, con l’ambizione di conquistare la roccaforte della finanza milanese. Non è detto che l’operazione vada in porto senza traumi, non è detto che i mercati internazionali accettino senza riserve un consolidamento di questo tipo, ma il dato politico e finanziario è già acquisito: Monte dei Paschi non è più la banca fallita di un tempo. È tornata al centro della scena, e tutti, volenti o nolenti, devono fare i conti con lei.
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