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Cronaca

Carne da macello digitale: la tragedia di Jean Pormanove. Andava a caccia di "like"

Aveva 46 anni, milioni di follower e un impero costruito sul dolore in live. Umiliazioni, privazione di sonno, sostanze tossiche: il corpo non ha retto. Ora la Francia e il mondo si interrogano sui limiti dell’intrattenimento online e sulla complicità delle piattaforme

Carne da macello digitale: la tragedia di Jean Pormanove. Andava a caccia di "like"

Jean Pormanove

Era un nome noto tra i giovani e gli appassionati di streaming: Jean Pormanove, al secolo Raphaël Graven, 46 anni, francese di Woippy, Mosella. Un uomo che aveva fatto della propria vita uno spettacolo, un contenuto, una sfida continua davanti a migliaia di spettatori collegati da ogni parte del mondo. Un volto familiare sulle piattaforme digitali – da Twitch a TikTok, da YouTube fino a Kick – che però oggi viene ricordato non per le sue gag o per la sua energia debordante, ma per una morte atroce, consumata sotto gli occhi di tutti.

La sua storia è quella di un’ascesa rapidissima e di una caduta altrettanto violenta. In pochi anni, Pormanove era diventato il più seguito streamer francese su Kick, accumulando quasi 670mila follower e decine di milioni di visualizzazioni. Il suo stile era inconfondibile: ironico, aggressivo, eccessivo, sempre al limite. Si presentava come l’uomo che non temeva nulla, pronto a lanciarsi in dirette infinite, sfide assurde, provocazioni al limite dell’umana resistenza. Si faceva umiliare, torturare, anche picchiare. Se ne faceva fare di tutti i colori.

In un mondo digitale dove tutto deve essere più veloce, più forte, più scioccante per catturare l’attenzione, Pormanove era riuscito a incarnare perfettamente la logica dello show must go on.

Ma è proprio questa logica che l’ha stritolato. Nella notte tra il 17 e il 18 agosto 2025, Jean Pormanove è morto durante una maratona streaming di quasi 300 ore consecutive. Dodici giorni di diretta, senza sosta, durante i quali il corpo e la mente erano stati spinti ben oltre ogni limite. Chi ha seguito quelle ore parla di uno spettacolo diventato progressivamente insostenibile: privazione del sonno, umiliazioni fisiche, ingestione di sostanze tossiche, perfino percosse e torture “a scopo di intrattenimento”. Non era più una trasmissione: era un supplizio. E il pubblico, collegato, oscillava tra il tifo e lo sgomento, tra le risate e l’orrore.

Quando, dopo ore di stanchezza e sofferenze visibili, Pormanove si è addormentato e non si è più svegliato, molti hanno creduto fosse parte dello spettacolo. In realtà, era già la fine. I soccorsi non hanno potuto fare nulla. Il corpo è stato ritrovato senza vita, la diretta è stata interrotta, e la notizia ha fatto il giro del mondo. L’autopsia dovrà stabilire con certezza le cause del decesso, ma la dinamica appare chiara: un mix micidiale di esaurimento fisico, violenze subite e pratiche pericolose trasformate in contenuto virale.

A rendere il quadro ancora più cupo, ci sono i complici. Due uomini noti online come “Naruto” (Owen Cenazandotti) e “Safine”, già in passato indagati per violenze su persona vulnerabile, avrebbero avuto un ruolo nelle “sfide” e nelle umiliazioni inflitte allo streamer. Già a gennaio erano stati interrogati e messi sotto inchiesta, ma erano tornati davanti alla telecamera come se nulla fosse. Oggi, inevitabilmente, finiscono di nuovo nel mirino della giustizia francese.

Le reazioni non si sono fatte attendere. Clara Chappaz, ministra francese per l’Intelligenza Artificiale e il Digitale, ha parlato di “orrore assoluto”, puntando il dito contro le piattaforme che permettono a simili contenuti di circolare senza controllo. La piattaforma Kick, che aveva fatto della libertà creativa il suo marchio di fabbrica, si trova ora travolta dalle critiche: molti chiedono regolamenti più severi, limiti più chiari, responsabilità precise. La società ha annunciato indagini interne e sospensioni di account, ma l’impressione è che il danno sia già irreparabile.

E mentre la politica discute di leggi e di moderazione dei contenuti, il mondo dello spettacolo digitale piange il suo ennesimo caduto. Alcune star della musica e dello streaming, come Drake e Adin Ross, si sono offerti di coprire le spese del funerale, un gesto di solidarietà che tuttavia non cancella la sensazione di vuoto e di assurdità.

Quella di Jean Pormanove non è solo la storia di un uomo che ha spinto troppo oltre i propri limiti. È lo specchio di una società che consuma intrattenimento a ogni costo, dove la linea tra spettacolo e disumanità è diventata sottilissima. Migliaia di spettatori hanno assistito a una morte in diretta senza riuscire a fermarla. E oggi il suo nome, da idolo dello streaming, diventa simbolo di un sistema che ha bisogno urgente di interrogarsi: fino a che punto siamo disposti a spingerci per un like, un follower, una manciata di visualizzazioni?

Insomma, la vicenda di Jean Pormanove è destinata a segnare una svolta. Non solo per le indagini giudiziarie e per il destino di Kick, ma per il dibattito stesso sul senso e sui limiti dell’intrattenimento online. In Francia e in tutto il mondo, il caso ha scosso coscienze e sollevato domande scomode. E mentre i suoi fan continuano a riempire i social di messaggi di cordoglio, resta la domanda più crudele: quanto vale una vita, se trasformata in contenuto?

Morto per i nostri like: il sacrificio di Jean Pormanove nello stadio globale dei social

La morte di Jean Pormanove non è solo la fine tragica di un uomo in diretta streaming. È il funerale di un’illusione: quella di un mondo digitale che poteva restare libero, creativo, senza bisogno di regole. È l’ennesima prova che senza limiti, senza un’etica condivisa, il web diventa una gabbia di vetro dove la dignità umana si consuma davanti a milioni di occhi passivi.

Per dodici giorni, Pormanove ha messo in scena la sua agonia. Privazione di sonno, umiliazioni, sostanze tossiche ingerite come se fossero sketch comici, torture spacciate per sfide. E migliaia di spettatori lo hanno guardato. Qualcuno rideva, qualcuno incitava, qualcuno forse era inorridito ma restava connesso. Nessuno lo ha fermato. Non è stata solo la piattaforma a fallire: siamo stati tutti noi, come comunità globale, a fallire.

I social nascono come spazi di libertà, ma quando la libertà si trasforma in licenza, e la licenza in spettacolo della sofferenza, allora non siamo più di fronte all’intrattenimento. Siamo davanti a un rito collettivo di disumanizzazione. E il fatto che sia accaduto in diretta, davanti a un pubblico mondiale, amplifica lo scandalo: la morte non come incidente, ma come prodotto di consumo.

In Francia si parla di inchieste, di responsabilità delle piattaforme, di regolamentazione. Benissimo. Ma serve uno scatto più profondo. Non basta bannare qualche account o fingere indignazione dopo che il corpo è già freddo. Occorre ripensare il modello stesso su cui poggia l’intrattenimento digitale: un modello che premia l’eccesso, la crudeltà, il limite superato, perché “solo così” arrivano click, donazioni, followers.

Chi oggi piange Pormanove non può dimenticare che lo ha spinto a quel punto un meccanismo più grande di lui: un mercato del dolore, dove l’unico parametro è la viralità. Se non ci diciamo chiaramente che questa logica è intollerabile, ne avremo altri, di Pormanove, sacrificati sull’altare di un algoritmo.

La vera domanda non è se Kick, Twitch o YouTube abbiano fatto abbastanza. La domanda è: quanto siamo disposti a tollerare come spettatori? Quanto ancora resteremo lì, immobili davanti a un uomo che si spegne, convinti che sia solo “contenuto”?

Il caso Pormanove ci obbliga a guardare nello specchio più scomodo. Non è un incidente isolato: è il futuro che ci attende se non ridiamo al digitale la sua misura umana. Perché la libertà senza responsabilità non è progresso: è barbarie travestita da spettacolo.

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