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20 Agosto 2025 - 16:32
Foto d'archivio non riferibile ai soggetti coinvolti in questo articolo
Ci sono storie che non dovrebbero mai accadere, eppure accadono. Storie che si consumano in silenzio tra i corridoi delle scuole, dove invece dovrebbero nascere speranza, accoglienza e diritti. È la storia di un ragazzo con disabilità gravissima che ha frequentato la terza media presso l’Istituto Gramsci di Settimo Torinese. Un padre, ferito e indignato, ha deciso di denunciare pubblicamente quanto vissuto, per non lasciare che il silenzio copra ciò che definisce senza esitazione “maleducazione, discriminazione e mancanza di umanità”.
All’inizio dell’anno scolastico la famiglia aveva chiesto che il figlio potesse ripetere la classe terza. Una richiesta che non nasceva dal capriccio, ma dal buonsenso e dal diritto sancito dalla legge: la possibilità di permanere nello stesso ciclo scolastico quando le condizioni educative lo richiedono, specialmente in presenza di disabilità complesse. Il ragazzo, affetto da gravi limitazioni fisiche e cognitive, avrebbe potuto affrontare un ulteriore anno in un ambiente che conosceva, con docenti già informati sulle sue esigenze, senza l’impatto traumatico di un liceo non ancora attrezzato.
La risposta della scuola, però, è stata un muro. Un insegnante di sostegno che ha annullato i colloqui con la famiglia, riducendo la relazione a semplici mail settimanali. Un preside che si è trincerato dietro il Consiglio di Classe, dichiarando di non avere poteri decisionali. Un corpo docente che, a detta del genitore, ha mostrato insofferenza e paura, come se il problema non fosse un ragazzo da accompagnare ma un ostacolo da rimuovere.
“Abbiamo capito che non volevano più avere a che fare con lui”, racconta il padre.
Il momento più doloroso è arrivato con l’esame di Stato. Per il ragazzo, incapace di comunicare e di compiere attività motorie complesse, è stata proposta una prova ridotta a un gesto: lanciare una pallina. Una proposta che i genitori hanno percepito come offensiva, svilente, lontana anni luce dal concetto di inclusione. Hanno rifiutato, decidendo di non sottoporre il figlio a quella che consideravano un’umiliazione. Ma l’istituto, con freddezza burocratica, lo ha comunque promosso e ammesso alle superiori, come se fosse un fascicolo da chiudere e non una persona da accompagnare.
Il padre ha scritto al Ministero dell’Istruzione, denunciando non solo il comportamento dell’Istituto Gramsci ma anche l’inerzia della dirigenza. Da Roma, però, è arrivata solo una risposta fredda: se vuole, può presentare ricorso. Nessuna indagine, nessuna ispezione, nessuna presa in carico. Un rimpallo istituzionale che lascia la famiglia sola, mentre il ragazzo si trova di fronte a un liceo non pronto ad accoglierlo.
Questa vicenda non è un caso isolato. Negli ultimi anni sono emerse denunce simili in diverse città italiane: famiglie che chiedono continuità, scuole che rispondono con freddezza, insegnanti di sostegno lasciati spesso soli e impreparati. Eppure la legge è chiara. Dal 1977, con la legge 517, l’Italia ha scelto la via dell’inclusione scolastica, abolendo le classi differenziali. Successivamente la legge 104 del 1992 ha sancito il diritto all’integrazione e alla partecipazione piena degli alunni con disabilità. Più recentemente, il decreto legislativo 66 del 2017 ha rafforzato il principio, sottolineando che l’inclusione è un obiettivo irrinunciabile dell’intero sistema educativo. Non un favore, non una concessione, ma un diritto costituzionale.
Eppure, nei fatti, troppe famiglie si scontrano con realtà ben diverse: mancanza di formazione dei docenti, carenza di risorse, dirigenti che scaricano responsabilità, insegnanti di sostegno che spesso cambiano ogni anno, senza garantire quella continuità che è vitale per i ragazzi più fragili. Nel caso di Settimo Torinese, la denuncia del padre parla di una scuola “inadeguata non solo per mancanza di fondi, ma per una presidenza disinteressata e un corpo docente non preparato”.
C’è anche un nodo umano, che va oltre le leggi. La scuola non è solo un luogo di istruzione, ma una comunità che dovrebbe includere, proteggere, far sentire ogni ragazzo parte di un cammino. Quando un ragazzo disabile viene percepito come un peso, significa che il sistema ha fallito. E questo fallimento non è solo dell’Istituto Gramsci, ma riguarda l’intera comunità: le istituzioni, gli enti locali, il Ministero.
A Settimo Torinese oggi resta l’amarezza di una famiglia che si sente tradita. Ma resta anche una domanda collettiva: quante altre famiglie vivono lo stesso calvario, senza avere la forza o la possibilità di denunciare? Quanti ragazzi vengono spinti ai margini da una scuola che predica inclusione ma non riesce a praticarla?
Questa vicenda dovrebbe scuotere le coscienze. Non è accettabile che nel 2025 si parli ancora di discriminazione verso chi ha più bisogno di sostegno. Non è accettabile che un esame venga ridotto a una farsa. Non è accettabile che il diritto allo studio venga trasformato in un calvario burocratico.
La voce di questo padre, che ha scelto di parlare per tutelare non solo suo figlio ma anche gli altri studenti con disabilità, diventa allora un grido che interroga tutti. L’Istituto Gramsci e il Comune di Settimo Torinese, certo. Ma anche il Ministero, che non può limitarsi a scaricare responsabilità sui tribunali. Perché se la scuola non è il luogo dell’inclusione, allora non è più scuola. È soltanto un edificio con delle aule.
Insomma, questa non è una storia privata. È la fotografia amara di un Paese che sulla carta ha scelto la strada dell’inclusione, ma che nei fatti troppo spesso lascia indietro chi non ha voce.
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