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19 Agosto 2025 - 06:35
A Ivrea c’è una storia che da oltre dieci anni si trascina come una ferita mai rimarginata. È quella della cava di San Bernardo, in località Fornaci. Una concessione estrattiva rilasciata nel dicembre del 2014, mai utilizzata, rimasta sospesa in un limbo burocratico. Una concessione che sembrava destinata a finire tra i faldoni dimenticati degli uffici e che invece oggi, nel 2025, torna a pesare come un macigno: la Cogeis di Quincinetto ha infatti chiesto il rinnovo, con l’obiettivo di estrarre oltre 230 mila metri cubi di sabbia e ghiaia.
Dieci anni fa quel via libera era stato concesso con una clausola sospensiva: la possibilità di scavare sarebbe scattata solo dopo aver risolto due nodi fondamentali, la viabilità e l’impatto acustico. Due condizioni mai rispettate, anzi peggiorate. Perché mentre la pala meccanica restava spenta, il quartiere attorno è cambiato. Dove c’erano campi e terreni agricoli oggi ci sono villette a schiera, condomini, famiglie con bambini che ogni mattina attraversano la zona per andare a scuola, anziani che passeggiano lungo strade che non erano pensate per diventare corridoi di camion carichi di ghiaia. Nessuno dei nuovi residenti poteva immaginare di trovarsi a convivere con un sito estrattivo a pochi metri da casa.
Eppure, nel brusio ovattato delle Conferenze dei Servizi, quel progetto che sembrava morto e sepolto è tornato a farsi vivo. Prima con riunioni tecniche a metà luglio, poi con la Conferenza decisiva del 21 luglio, fino alle osservazioni elaborate e depositate dal Comune qualche giorno fa. Ora tocca alla Città Metropolitana di Torino decidere se confermare o meno il rinnovo della concessione.
Qui sta tutta l’assurdità. La legge regionale 23/2016, all’articolo 19 comma 1, non lascia margini: i rinnovi vanno trattati come nuovi rilasci. Significa che l’intera procedura dovrebbe essere rifatta da capo, con studi aggiornati su ambiente, salute, urbanistica, rumore. Invece l’ente metropolitano ha scelto la via più comoda: considera il rinnovo come una mera prosecuzione e si limita a chiedere a Cogeis poche integrazioni marginali.
Una posizione che ha indignato i cittadini, spiazzato il Comitato No Cava e lasciato basiti persino alcuni tecnici presenti alla Conferenza. Perché, come hanno ammesso candidamente gli stessi funzionari, «se fosse una nuova concessione, non avremmo potuto dare parere favorevole». Ma siccome nel 2014 il Comune aveva già dato il suo assenso, oggi si sentono vincolati a confermare. È la logica del precedente, applicata senza alcuna considerazione su un territorio che, nel frattempo, è completamente cambiato.
Il problema più evidente resta quello della viabilità. Via delle Fornaci, la strada su cui dovrebbero transitare i camion carichi di ghiaia, è oggi una lingua stretta di asfalto, larga appena sei metri, incastrata tra abitazioni e lo stabilimento Icas. Per renderla adatta al passaggio dei mezzi pesanti occorrerebbe allargarla a dieci metri, installare semafori, barriere, attraversamenti pedonali, nuove intersezioni. Tutto secondo il Codice della strada e il Decreto ministeriale del 2001. Ma un simile intervento richiederebbe espropri di terreni privati e lo spostamento di cancelli industriali che nessuno sembra disposto a concedere. Per questo il sindaco Matteo Chiantore ha usato parole nette: «La viabilità alternativa non esiste. Non c’è una soluzione praticabile. È una problematica irrisolvibile».
A ciò si aggiunge l’impatto acustico: famiglie che hanno costruito in classe 3 si ritroverebbero improvvisamente in classe 6, un salto che renderebbe incompatibile la convivenza tra case e cava.
Il messaggio del sindaco è stato chiaro: «Quella concessione è teoricamente valida, ma inapplicabile. Se Città Metropolitana decidesse di rinnovarla, il problema rimarrebbe intatto. Non ci sono le condizioni tecniche per procedere».
Una posizione ribadita anche in Consiglio comunale, che lo scorso maggio ha votato all’unanimità un ordine del giorno impegnando l’amministrazione a fare tutto il possibile per impedire il rinnovo. Ma non è detto che basti. Perché la competenza formale resta alla Città Metropolitana, che ha già chiarito: «Se davvero volete fermarla, deve essere il Comune a bloccarla con un atto formale». In altre parole: decidete voi.
In questo scenario, il Comitato No Cava ha assunto un ruolo di sentinella civile. Ha raccolto firme, organizzato incontri pubblici, promosso petizioni. Ha definito il progetto «estraneo al contesto agricolo, residenziale e culturale del quartiere», parlando di «disastro annunciato» e di «minaccia per la vivibilità». Le accuse entrano nel merito: studi acustici insufficienti, assenza di soluzioni per le acque meteoriche, viabilità impraticabile. E soprattutto, la denuncia di un atteggiamento superficiale da parte dell’ente torinese, che avrebbe accettato carte vecchie e incomplete come se nulla fosse cambiato in dieci anni.
Il Comitato riconosce le parole ferme del sindaco, ma chiede che quelle dichiarazioni diventino atti ufficiali e vincolanti, capaci davvero di bloccare la procedura. Non più solo dichiarazioni, insomma, ma decisioni amministrative chiare e trasparenti.
Intorno alla cava aleggia anche una narrazione strumentale: quella secondo cui l’estrazione servirebbe a fornire sabbia e ghiaia per la costruzione del nuovo ospedale di Ivrea. Una giustificazione che Matteo Chiantore ha liquidato senza esitazioni: «Di ghiaia non ce ne vuole così tanta. È un falso argomento».
La cava di San Bernardo è oggi molto più di un dossier urbanistico: è il simbolo della distanza tra burocrazia e realtà, tra carte e vita quotidiana. È l’emblema di un sistema che procede per automatismi, anche quando il contesto è cambiato radicalmente. Oggi, a dieci anni di distanza, la pala meccanica è ancora ferma. Ma il rumore politico è assordante. Perché i cittadini temono che, se non si cambia rotta, presto non si parlerà più solo di carte e conferenze dei servizi. La terra, a San Bernardo, potrebbe davvero iniziare a tremare.
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