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Ombre su Torino
17 Agosto 2025 - 18:12
Inizia tutto con una telefonata.
Se fossimo in un film, lo schermo si dividerebbe a metà per mostrare gli interlocutori, ma una musica ricca di tensione ci impedirebbe di ascoltare il dialogo. All’apparecchio ci sono due uomini e la conversazione è molto breve. Il primo scandisce giusto un paio di frasi, l’altro si limita ad annuire. Dal labiale sembra rispondere “va bene, ho capito” e poi riaggancia. Guarda in camera e sorride. Finché sul viso gli spunta un ghigno inquietante.
La scena si sposta di qualche chilometro. Di nuovo, due persone al telefono. Questa volta, però, si riesce a percepire il loro dialogo. Antonietta sta parlando con sua sorella Èlia che, a sua volta, ha accanto la loro sorella più piccola, la quattordicenne Patrizia. Antonietta chiede a Èlia se potesse mandare Patrizia alla ditta dove lavora per ritirare un documento. Èlia è riluttante, ma l'adolescente, manco a dirlo, è entusiasta di questa piccola avventura.
Sono le 14:45 del 3 luglio 1981 e siamo a Torino, in via Bistagno 26, a Santa Rita. Per arrivare al sacchettificio nel quale è impiegata Antonietta in via Lisa 12, a Borgo Vittoria, Patrizia deve prendere prima l’autobus 71, poi il 59 e infine il 9. Ci impiega un'ora per giungere a destinazione. Si ferma davanti al cancello principale dell’azienda e, dopo qualche istante, svanisce nel nulla. Come risucchiata da un abisso.
I genitori di Patrizia, che vive con loro in via Plava 121, a Mirafiori Sud, attendono invano il suo ritorno per tutta la giornata. Quando sono passate ormai 12 ore dalla sua scomparsa, si presentano al vicino commissariato di polizia per denunciare il fatto.
Le ricerche partono immediatamente e già il pomeriggio del 4 luglio si scopre che l’ultima persona ad aver intravisto la ragazza è il figlio del titolare del sacchettificio, il trentenne Roberto Ravazzani. Convocato in ufficio dalla polizia, racconta che, intorno alle 16 del giorno prima, ha effettivamente incontrato Patrizia di fronte alla fabbrica, ma che le aveva comunicato che gli uffici erano già chiusi dalle 13 e che sarebbe dovuta tornare un'altra volta. L’uomo, allora, l’aveva caricata sulla sua 600 e l’aveva accompagnata alla fermata del bus di via Braccini, dove la giovane avrebbe potuto prendere i mezzi per tornare a casa.
Le indagini si allargano a macchia d’olio, seguendo tutte le direzioni in cui portano i tram e i pullman che transitano dove è stata lasciata Patrizia. L’operazione è coadiuvata da una partecipazione popolare con pochi uguali in casi del genere. In quei giorni, in via Plava e in tutto Mirafiori Sud, i muri, le chiese, le bacheche dei giornali e gli spazi dedicati alle affissioni elettorali vengono ricoperti di foto della giovane. La cercano ovunque, dividendosi le strade in gruppi e pattugliando ogni centimetro della zona, giorno e notte. Un buco nell’acqua.
Dopo sei giorni dalla scomparsa, i genitori chiedono a La Stampa di pubblicare un ritratto della figlia, ma anche questa iniziativa non ha successo. Le ipotesi iniziano ad accumularsi: qualcuno dice che è stata rapita, altri che è fuggita con un coetaneo di cui era innamorata o che è scappata per la vergogna, dopo essere stata bocciata a scuola.
Non accade nulla. Fino al 17 luglio.
Giuseppe Piovano è un addetto alla manutenzione di un canale d’irrigazione che parte da Alpignano e termina contro una griglia a Orbassano. Il 17 luglio 1981 si trova lì perché, come ogni due giorni, deve sgomberare lo sbarramento dalla spazzatura che l’acqua trascina con sé lungo tutto il suo percorso.
L’uomo sposta i rifiuti con un forcone finché incappa in qualcosa di molto pesante e di colore bianco: un manichino. Piovano tenta di tirarlo a riva ma, guardandolo da vicino, si accorge che è un corpo umano in avanzato stato di decomposizione. Ha addosso una camicetta, un reggipetto e delle mutandine e ha le mani legate dietro da un elastico che si scoprirà appartenere ai bermuda che indossava. È una giovane donna, una ragazzina. La riconoscono dagli orecchini che porta: è il cadavere di Patrizia Esposto, 14 anni.
In assenza totale di spunti investigativi di qualche rilevanza, gli inquirenti convocano nuovamente Roberto Ravazzani. A suo carico non ci sono indizi precisi, ma i sospetti della famiglia di Patrizia cadono immediatamente su di lui. Èlia riferisce alla polizia, ad esempio, che, la sera in cui la giovane è sparita, Ravazzani si era presentato a casa loro dicendo di averla accompagnata alla fermata del 71 di via Braccini. Solo che all’inizio afferma di averla portata alla prima, poi alla seconda e poi, forse alla terza fermata.
Antonietta, inoltre, si ricorda che in passato l’uomo si era più di una volta offerto di dare un passaggio alla sorellina, che però aveva sempre rifiutato. E perché allora quel giorno andò diversamente? “Mi sono stupito anche io” rispose Roberto, “ma forse ha accettato perché stava per piovere”.
Nella stanza, quella sera, c’è anche una zia di Patrizia che gli chiede: “Ma se il documento non era pronto, perché non hai telefonato per avvertire?”. Imbarazzato, Ravazzani risponde: “So che non mi crederete, ma non avevo gli spiccioli per fare una telefonata e non osavo andare al bar per chiedere di farmi usare il telefono. Così ho aspettato”.
Si scopre, per altro, che non si sa cosa abbia fatto l’uomo tra le 16:30 (quando scarica Patrizia alla fermata) e le 19:00, orario in cui torna a casa. Giustifica quel "buco" con degli appuntamenti che aveva preso i giorni precedenti, ma che poi sarebbero misteriosamente saltati. Nessuno può confermare questo alibi.
Oltre a questo, il sospettato ha anche dei precedenti non esattamente rassicuranti. Nazista dichiarato, con tanto di aquila tatuata sul braccio, nel 1969 è stato arrestato perché stava per compiere il sequestro di persona di una quindicenne e, l’anno dopo, finisce dentro perché fermato su un’auto rubata con a bordo blocchi di porfido e catene. Infine, Antonietta narra che Ravazzani è un divoratore di libri gialli e che le aveva spesso raccontato come i killer facevano a uccidere le loro vittime. Le diceva che gli assassini erano stupidi e che lui, al posto loro, non avrebbe lasciato tracce. Ad esempio gettando il cadavere in acqua.
Tutte queste suggestioni, tuttavia, non sono sufficienti a tramutarsi in un arresto. Anche perché, già il 18 luglio, la perizia dei professori Balma-Bollone e Torre è lapidaria: suicidio. Sul corpo dell’adolescente non ci sono tracce di violenza né segni che possano far pensare a percosse. Nessuna escoriazione, il corpo è stato solo consumato dalla lunga permanenza in acqua. Prima di togliersi la vita, avrebbe ingerito alcuni calmanti e sembra possa essersi annodata da sola l’elastico dei bermuda (mai ritrovati) che le bloccava le mani.
La polizia, la famiglia e tutto Mirafiori Sud, però, non ci credono. Oltre al fatto che Patrizia non avrebbe avuto alcun motivo per suicidarsi, rimangono moltissime domande senza risposta. Come avrebbe raggiunto Orbassano? Con un pullman? No, perché per arrivare lì serve un bus interurbano e la giovane è uscita senza soldi. In autostop allora? E perché proprio Orbassano? Come ha fatto a procurarsi i tranquillanti senza ricetta? La ragazza, oltretutto, era un'ottima nuotatrice, come ha fatto a morire in 60 cm d’acqua? E infine, il cadavere viene trovato senza bermuda e scarpe; perché avrebbe dovuto togliersele prima di gettarsi nel canale?
Il caso va verso l’archiviazione.
Poi, però, passa un anno, e cambia tutto.
11 luglio 1982.
Le indagini, che nel frattempo sono state affidate al giudice istruttore Oggè, prendono la piega giusta proprio grazie a un’intuizione del magistrato. Questi fa calare un sommozzatore dalla griglia che sta a monte del canale e lo fa arrivare, trascinato dalla corrente, fino a dove è stata trovata Patrizia. Ci vogliono quattro ore. Perché allora il corpo della quattordicenne è stato scoperto dopo 14 giorni? La risposta la ottiene dragando il corso d’acqua e scoprendo un masso a cui sono fissate delle corde. La Esposto è stata uccisa e il cadavere è stato legato a quella pietra per non farlo tornare a galla.
Succede, poi, che si presenta in questura un certo Dino Giargia. Ladro d’auto e piccolo criminale, Giargia riferisce di conoscere il luogo del ritrovamento del cadavere e di esserci andato spesso in compagnia di un suo amico e complice. Il suo nome? Roberto Ravazzani.
È a questo punto che il primo (e unico) sospettato dell’intera indagine vuota il sacco. Confessa, anche se le numerose versioni che fornisce, alla fine, non aiuteranno comunque a ricostruire l’esatta dinamica dell’evento.
Inizialmente, Ravazzani (che la mattina dell’omicidio era stato avvertito telefonicamente dal padre del fatto che il documento che serviva ad Antonietta non era pronto) racconta di aver effettivamente incontrato Patrizia davanti al sacchettificio, proponendole di fare un giro che si sarebbe concluso lungo quel canale di Orbassano.
Lei lo segue volontariamente, si siedono sotto una pianta e la ragazza si toglie i bermuda e le scarpe. Roberto tenta un approccio, ma la giovane lo rifiuta e, spaventata, scappa. Il trentenne allora aspetta che torni, ma questo non accade, e se ne va. La ragazza si sarebbe suicidata per la vergogna, ma la cosa risulta impossibile, perché il cordino con cui si è legato le mani è quello dei bermuda, che, in questa ricostruzione, erano rimasti nella disponibilità di Ravazzani.
Messo alle strette, cambia racconto. I due hanno delle effusioni nei pressi del canale, ma improvvisamente la ragazza si sente male e gli sviene tra le braccia. Pensa che sia morta e, spaventato di dover giustificare l’intera storia, si fa prendere dal panico, le lega le braccia dietro la schiena e la fa scivolare in acqua. Infine, si corregge ancora: “Ho perso la testa, forse le ho stretto la gola. Era morta, non sapevo come uscirne”.
Il problema è che, una volta arrivato al processo, Ravazzani ritratta tutte queste ricostruzioni, accusando la polizia di avergliele estorte con la forza. Ad inguaiarlo definitivamente, tuttavia, arriva una nuova perizia firmata dai medici legali Franchini e De Bernardi, che riscontrano infiltrazioni ematiche sulla salma. Quelle infiltrazioni sono state prodotte su un corpo ancora in vita. Quindi, quando è finita in acqua, Patrizia respirava ancora.
Nella richiesta di rinvio a giudizio, Oggè usa parole di fuoco per descrivere l’accusato. Lo definisce “Tipico rampollo di famiglia benestante, spostato, insicuro, con problemi psicologici irrisolti e nascosti dietro atteggiamenti tra l’infantile e il megalomane”, che “Dopo aver tentato con la minaccia e atti di libidine di piegare la ragazza alle sue voglie, l’ha uccisa gettandola ancora viva e con le mani legate nella roggia. L’ha fatto per nascondere la sua accertata mancanza di virilità e per realizzare il suo sogno del delitto perfetto.”
Implacabile anche il PM Maddalena nella sua requisitoria in cui chiede l’ergastolo: “L'imputato dice di aver buttato Patrizia nella roggia credendola morta. Nel suo caso più che un timore era una speranza. Ravazzani aveva tutto l'interesse che la ragazza fosse morta o morisse subito. Per questo le ha legato le mani dietro la schiena e l'ha scaraventata nella roggia, un'operazione che deve aver richiesto non secondi, ma parecchi minuti. L'accusato ha detto che in tutti questi minuti non ha avuto il dubbio di essersi sbagliato, e cioè che la giovane potesse ancora essere viva. Ha confessato la verità: lui non poteva avere un dubbio, a lui premeva solo sbarazzarsi per sempre di Patrizia. Sapeva che, se avesse risparmiato la ragazza, lei sarebbe corsa a denunciarlo; allora non ha esitato un attimo e l'ha gettata con le mani legate nella roggia, condannandola a morte sicura”.
Il 10 giugno 1985, beneficiando delle attenuanti generiche, Roberto Ravazzani viene condannato a 27 anni di reclusione.
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