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04 Agosto 2025 - 10:22
Martina è morta. In Svizzera. Il 31 luglio 2025. Con lucidità, con consapevolezza, con la dignità che la sua malattia – una sclerosi multipla in fase avanzata – stava cercando da anni di strapparle via. Non ce l'ha fatta l'Italia a starle accanto. L'hanno fatto in trentuno. Tra loro anche un chivassese: Marco Riva Cambrino, attivista, cittadino, socialista. Uno che non si è voltato dall’altra parte.
Martina Oppelli, architetta triestina, ha detto basta dopo mesi di risposte negate dalla propria ASL e un silenzio assordante da parte di politica e istituzioni. A nulla sono valse le indicazioni della legge 219 del 2017. A nulla la sentenza 242 della Corte Costituzionale. La burocrazia ha chiuso gli occhi. E lei ha scelto di aprirli altrove, per l’ultima volta.
«Ho deciso di sostenere Martina perché credo che nessuna persona debba essere costretta all’esilio per morire con dignità» – spiega Marco Riva Cambrino, che ha offerto supporto morale, logistico ed economico all’iniziativa promossa da Soccorso Civile e Associazione Luca Coscioni. Il suo non è stato un gesto nascosto. Al contrario. Lo ha rivendicato pubblicamente, a viso aperto.
Marco Riva Cambrino, chivassese
«Con il mio contributo – continua – ho voluto ribadire che la disobbedienza civile può essere un atto di responsabilità morale quando lo Stato viene meno alla sua funzione di tutela della dignità umana. Sono consapevole che il mio gesto potrebbe avere conseguenze penali che prevedono la detenzione, e lo assumo con piena responsabilità.»
Martina ha lasciato un messaggio forte. Prima di partire, ha sporto denuncia contro l’azienda sanitaria per tortura e omissione d’atti d’ufficio. Perché quando lo Stato si gira dall’altra parte, la violenza è doppia. Fisica e morale. La sua morte è diventata un atto politico, un’accusa. E una testimonianza. A portare la fiaccola, tra gli altri, anche Riva Cambrino, che non è nuovo all’impegno per i diritti civili.
«Per chi, come me, si riconosce nella tradizione socialista – afferma – la disobbedienza civile non è una ribellione individualista, ma un atto collettivo e profondamente politico, radicato nella volontà di trasformare la società in senso egualitario e democratico.»
E qui non si tratta di ideologia, ma di umanità. Di giustizia. Di restare umani quando le leggi si fanno mute, cieche, sorde. Di riempire con coscienza e coraggio lo spazio lasciato libero da uno Stato che abdica al proprio ruolo.
Martina, come altri prima di lei, ha dovuto affrontare un viaggio di morte, lontano da casa, lontano dai suoi affetti, per ottenere un diritto che dovrebbe essere garantito in ogni Paese civile: scegliere come porre fine alla propria sofferenza. Eppure, ancora oggi, il dibattito resta tabù. Soprattutto nei territori come il nostro, dove si preferisce parlare d’altro. Dove i temi bioetici vengono sistematicamente rimossi, nascosti sotto il tappeto dell’ipocrisia.
«Quando le leggi, o la loro mancata applicazione, contraddicono i principi della giustizia e della dignità umana – conclude Riva Cambrino – disobbedire diventa un dovere morale. È un modo per restare fedeli a un’etica pubblica più alta della mera legalità.»
La sua voce, oggi, richiama tutti – cittadini, politici, medici, giornalisti – a una riflessione che non può più essere rinviata. Perché la morte di Martina è anche nostra. E il silenzio non può più essere un alibi.
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