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Ombre su Torino

Una bottiglia di whiskey, il volume della musica che si alza e uno sparo che squarcia l'aria.

Un'esecuzione degna di un film americano. In un bar di Porta Palazzo

Una bottiglia di whiskey, il volume della musica che si alza e uno sparo che squarcia l'aria.

Basta chiudere gli occhi.

In un attimo, affiora l'odore acre di centinaia di mozziconi che strabordano da portacenere che andrebbero puliti più di frequente; le urla di due contendenti in una partita di briscola all’ultimo sangue; la sensazione di camminare su un pavimento rovinato, reso umido e appiccicaticcio dai resti di birra o vino versati.

Non serve esserci stati di persona.

È sufficiente leggere le cronache dell’epoca, osservare le foto. Immediatamente ci si ritrova calati nell’atmosfera popolare e sottilmente polverosa, cupa e quasi opprimente, di un bar degli anni ’70 a Torino, in corso Regina Margherita angolo corso XI Febbraio, a due passi da Porta Palazzo.

Il locale che oggi si fregia delle rassicuranti insegne del Palm Bar Lounge e Restaurant, nel 1974 si chiamava Bar Aquila e, a detta di avventori e abitanti del circondario, era considerato “un covo di sfaccendati, pieno di giovinastri che importunano le donne di passaggio”.

E, dopo il 29 gennaio, anche qualcos’altro.

Quel giorno, intorno alle 6:15 del mattino, una lattaia di 42 anni, Anna De Martino, scende le scale del suo vecchio appartamento di corso Regina Margherita 122, avviandosi verso il negozio che gestisce poco lontano. Sta attraversando il cortile immerso nel buio quando, senza accorgersene, inciampa in qualcosa di molto pesante che la fa quasi ruzzolare a terra. La signora inizia ad impilare uno sopra l’altro una serie infinita di improperi nei riguardi dei vicini di casa che lasciano sempre la spazzatura nei luoghi comuni del condominio, ma poi, guardando meglio, si accorge di aver colpito un corpo umano.

Sulle prime, pensa di trovarsi davanti a uno dei tanti clienti del Bar Aquila (il cui retro affaccia proprio lì) che, dopo qualche bicchiere di troppo, si è appoggiato al muro e si è addormentato. La De Martino, allora, tenta di svegliarlo, gli dà dei buffetti sul viso, anche perché è preoccupata dal fatto che, nonostante il freddo pungente, quella persona avesse addosso solo un dolcevita senza una giacca o un cappotto. Quel corpo è effettivamente gelido, ma non per la temperatura: è il cadavere insanguinato di un giovane con il cuore fatto a pezzi da un proiettile calibro 38.

La vittima si chiama Vincenzo Marconi e ha 23 anni. Dopo un’adolescenza turbolenta costellata da denunce e reati bagatellari, nel 1969 viene arrestato dopo aver compiuto una rapina a Milano, condannato a 2 anni e 10 mesi. Da quel momento non ha più a che fare con la giustizia.

Mette la testa a posto, anche se la voglia di lavorare non è certamente finita al primo posto nella classifica delle sue priorità. Si diletta saltuariamente come fornaio ma, evidentemente, assunto da un datore di lavoro particolarmente munifico, perché viene spesso notato con grosse mazzette di contanti tra le mani e sfrecciare su una Honda di grossa cilindrata.

A identificare la salma è il proprietario del Bar Aquila, il ventiduenne Giuseppe Castellano. Lui e Marconi erano amici, avevano fatto il militare insieme: “Vincenzo è arrivato ieri sera verso le 22. Ha preso un caffè, poi mi ha detto che aveva degli affari da sbrigare e mi ha chiesto di dare un’occhiata alla sua moto parcheggiata davanti all’ingresso. Gli ho detto che non potevo e dopo non l’ho visto più”.

Questo goffo tentativo di allontanare da sé ogni sospetto rimane credibile, agli occhi degli inquirenti, giusto un paio d’ore. Con il sorgere del sole, infatti, si accorgono che, accedendo al retro del locale (perfettamente pulito e tirato a lucido, contrariamente alla sala principale ancora in disordine, come di consueto, dopo una serata di lavoro) una scia di sangue collega la porta che dà sul cortile al luogo dove è stato rinvenuto il cadavere. Si ipotizza, quindi, che Marconi sia stato ucciso dentro il caffè e che poi, tentando di salvarsi, abbia provato a raggiungere la strada, accasciandosi dopo pochi passi.

La polizia, inoltre, trova, in un bilocale che Castellano affitta sopra la rivendita, portafoglio, giacca e cappotto del defunto. Spalle al muro, il barista racconta tutto quello che sa.

Vincenzo Marconi era suo ospite da quattro giorni. Ospite, però, non è corretto. Il giovane gli aveva detto che aveva bisogno di nascondersi, che qualcuno lo stava cercando, non specificando, tuttavia, quale fosse il motivo che lo costringesse a comportarsi in tale maniera.

La sera del 28 gennaio 1974, un uomo arriva al Bar Aquila con la sua fidanzata e, rivolgendosi a Castellano, chiede di incontrarsi con Marconi: “So che è qui, sono un suo amico, devo parlargli”. Il barista allora sale da Vincenzo il quale, saputo della “visita”, si affretta a prendere la pistola sotto il materasso per andargli incontro. Castellano, però, gli si para davanti, irremovibile: “Non voglio sparatorie nel mio locale”. Si fa consegnare l’arma e, a quanto da lui stesso dichiarato, la nasconde in cantina.


Marconi e l’altro si siedono a un tavolo e iniziano a parlare concitatamente. L’oste non capisce cosa dicono, parlano in siciliano stretto, utilizzando molte “parole di malavita” nonostante, si appurerà in seguito, la vittima sia nata a Torino e, difficilmente, avrebbe potuto sostenere un dialogo come descritto dal testimone.

La coppia non alza la voce, non sta litigando, ma è evidente che tra loro ci sia qualcosa che non va. Dopo un po’, però, tra i due sembra che sia stato raggiunto un accordo e infatti l’uomo chiede una bottiglia di whiskey e di mettere su della musica napoletana per festeggiare. Marconi inserisce 100 lire nel juke-box del locale e, non appena le note allegre e scanzonate del primo brano riempiono l’aria, la stessa viene squarciata (anche se solo parzialmente perché il volume è particolarmente alto) da un botto spaventoso: “l’amico” di Vincenzo ha sparato a quest’ultimo a bruciapelo con la sua calibro 38. Un’esecuzione da killer esperto, quasi da film.


Il colpevole, individuato quasi subito, si chiama Diego Nizza. Originario di Trapani, ha 32 anni e una lunga sfilza di precedenti che lo avevano reso noto a carabinieri e polizia di tutta la Sicilia. Voci non confermate lo descrivono come molto vicino a potenti famiglie del sud, pericoloso, spietato. Insomma, in buona sostanza, un sicario. Che, tra l’altro, fugge immediatamente dopo l’assassinio e verrà arrestato solo nell’ottobre 1975.

Ma cosa avrebbe fatto Vincenzo Marconi per meritare una fine simile? Le indagini della squadra mobile e il processo non riusciranno a stabilirlo. Prima si è detto che il motivo fosse la spartizione del bottino di un colpo, poi che la vittima sarebbe stato un trafficante di droga che avrebbe sgarrato con una potente organizzazione, poi una questione di donne, infine, che Castelluccio lo avrebbe assunto in qualità di “duro” perché stanco di pagare il pizzo a Nizza.


L’11 febbraio 1977, in primo grado, Diego Nizza viene condannato a 21 anni. I giornali, tuttavia, perdono interesse per il caso e non si sa neanche come sia finita in appello due anni dopo. Come, ad oggi, non si è scoperto il movente. Come coperto da una spessa nuvola di fumo di centinaia di mozziconi che strabordano da portacenere che andrebbero puliti più di frequente. Come in un vecchio bar qualsiasi a Torino, a Porta Palazzo, a metà degli anni ’70.

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