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A Santa Elisabetta c’è ancora una trattoria come quelle di una volta: si chiama Minichin, e lì il tempo si è fermato davvero

Ottant’anni di cucina autentica tra i boschi della Valle Sacra: da Minichin il sapore è quello che avevamo dimenticato

Minichin

Ci sono giorni che iniziano con una curva. Una curva dolce, in salita, che da Favria si arrampica lungo la Valle Sacra. Ma non è solo una strada: è un cammino che lentamente ti spoglia del superfluo. La civiltà rimane giù, dietro le spalle, e ogni tornante è un invito a rallentare, a guardare davvero. A respirare.

Ai lati, i piloni votivi sorvegliano il passo. Monumenti discreti, incastonati nella pietra e nella fede popolare. Parlano senza voce, ma dicono tutto: raccontano di devozione, di passaggi antichi, di mani che hanno costruito e pregato. Intorno a loro, il verde avanza e prende spazio. La strada si stringe, il bosco si infittisce. E noi ci lasciamo avvolgere.

È un abbraccio autentico quello degli alberi. Un’ombra fresca, un silenzio pieno di vita. Ogni fruscio è un messaggio, ogni profumo un ricordo. Non c’è più fretta. Solo il passo lento della natura che ti accoglie. Non è sfondo, ma presenza viva. È lei a condurre il viaggio, a suggerire che, forse, la felicità passa proprio da qui.

Quando la luce cambia, tutto si apre. I prati si mostrano, larghi, morbidi. Le felci ondeggiano leggere, i fiori spontanei tingono il verde, e in mezzo a questa bellezza semplice e vera compare Santa Elisabetta. Un borgo piccolo, umile, ma che ha la forza di un abbraccio. Oggi ci accoglie con il suo volto più bello. È il compleanno di Matteo, mio figlio. E mai come adesso il mondo sembra perfetto.

Al centro di questa giornata c’è Minichin. Più che un ristorante, è un pezzo di storia. Da oltre ottant’anni la famiglia Bertot lo custodisce con amore, lo fa vivere come si fa con le cose preziose. La sala è calda, luminosa. Ci accoglie lei, la padrona di casa, con una gentilezza che non ha bisogno di parole, con uno sguardo che racconta tutto. Lui, in cucina, lavora in silenzio. Ma ogni piatto che esce ha dentro una firma. Una presenza. Un cuore.

Gli antipasti aprono il pranzo come una carezza: formaggi veri, salumi stagionati, sottaceti che sanno di cucina di nonna e di verità. I primi sono un inno alla montagna: gnocchi al Castelmagno che si sciolgono senza fretta, tagliatelle che sanno di burro e tempo. E poi la polenta concia, servita con salsiccia e costine, che non ha bisogno di presentazioni: parla da sé. Sazia. Consola. Rassicura.

Mangiamo, parliamo, sorridiamo. Matteo spegne le candeline, gli occhi brillano. E tutto è come dovrebbe essere. Nessuno ha voglia di alzarsi da tavola. Perché Minichin non è un luogo da cui si esce: è un luogo che resta. Nella memoria, nei gesti, nel cuore.

Questa giornata non è stata solo una festa. È stata un momento di pienezza. Abbiamo celebrato la vita, l’amore per il territorio, la bellezza dei legami familiari. Abbiamo ritrovato, nei boschi, nei piatti, negli occhi di chi ci ama, un senso profondo e autentico. Un senso che non si compra, non si inventa. Si riconosce. E quando lo si trova, non lo si dimentica più.

Alla fine, le vere gioie della vita sono semplici. I figli che crescono. Una dolce moglie. Un pranzo condiviso. Un bosco che ti accoglie. E la gratitudine, muta e immensa, per ogni giorno che ci è dato di vivere così.


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