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Mauro Salizzoni, il bottiglione vuoto e la sinistra senza memoria

Dalla foto del Municipio di Ivrea al post su Facebook che scuote il Pd: parole che sanno di addio, di delusione, di speranza. L’ultimo comunista del Consiglio regionale dice tutto, senza fare sconti: “Oggi la politica è uno stipendio. E quel bottiglione, nessuno lo riempie più”

Salizzoni, il bottiglione vuoto e la sinistra senza più memoria

Mauro Salizzoni

C’è un ricordo che mi guida — scrive su Facebook — il ‘bottiglione a perdere’ del Leon d’Oro, dove andavo con mio padre. Il vino non si ordinava: l’oste lo portava in tavola e, se non lo finivi, lo conservava per la volta dopo. Quando era vuoto, ne arrivava uno nuovo, pieno. Non era solo vino: era un patto di fiducia. La certezza che quella risorsa comune non si sarebbe esaurita, ma sempre rinnovata. Spesso penso che la politica, nel suo senso più nobile, dovrebbe essere così: una riserva di bene comune e fiducia reciproca. Invece, oggi, quel bottiglione a molti appare vuoto. La disillusione e la sensazione che le risorse, anche morali, siano esaurite, lasciano un senso di aridità e la tentazione di considerare tutto ‘a perdere’ per sempre. Ma l’insegnamento di quel luogo è un altro, ed è un messaggio di speranza: il vuoto non è una condanna, ma solo la condizione che precede il ‘pieno’. Non si riempie da solo, però. Tocca a noi, alla politica, essere l’oste che lo sostituisce. Ogni progetto portato a termine, ogni promessa mantenuta, ogni scelta giusta è un modo per versare nuovo vino. Il nostro compito non è lamentarci del vuoto, ma lavorare con serietà e visione per essere gli osti di fiducia del nostro tempo, capaci di riportare al centro del tavolo un bottiglione sempre pieno…”.

Lui è Mauro Salizzoni, già “mago dei trapianti”, e il post è di giovedì 24 luglio. Una riflessione nata di pancia, accompagnata dalla foto del municipio di Ivrea. Pochi minuti e la politica piemontese ha iniziato a chiedersi cosa ci fosse dietro. Una nostalgica memoria personale? Un messaggio in codice? Un addio? Una denuncia? Una presa di distanza?

“Semplicemente un ricordo mio e di mio padre dopo la morte di mia madre.” commenta con noi Salizzoni...

Ma poi, parola dopo parola, viene fuori altro. Su una politica che non “risolve”, che non “prende le distanze”, che gli appartiene fino a un certo punto.

“Tutti hanno rispetto di me. Godo di fiducia. Nessuno mi chiama consigliere regionale. Tutti, tra le file della maggioranza e della minoranza, mi chiamano professore. Hanno rispetto per la mia passione politica e per le mie radici da comunista…”

Già, comunista. Parola desueta, quasi proibita, ma che in bocca a Salizzoni ha ancora il peso delle origini, delle scelte, delle battaglie vere. E forse è proprio quella parola, scritta nero su bianco, a scuotere più della metafora del “bottiglione a perdere” evocata nel post. Una metafora potente, che racconta di un’osteria, di fiducia reciproca, di vino versato solo se la bottiglia è vuota. Di una politica che dovrebbe essere come quel vino condiviso: risorsa comune, rinnovabile, ma oggi troppo spesso arida, esaurita, svuotata.

Sia come sia il post ha fatto rumore.  

In molti ci hanno letto una presa di distanza dal Partito Democratico, in particolare sulla deriva di Milano con le indagini su Beppe Sala, sui silenzi torinesi intorno a Mauro Laus, e sulle vicende che stanno coinvolgendo l’ex sindaco di Pesaro, oggi eurodeputato Matteo Ricci.

Salizzoni uomo del Pd, certo, ma nelle pareti del suo vecchio ufficio alle Molinette campeggiavano da sempre le foto di Marx, Fidel Castro e Che Guevara. Nessuna maschera, nessuna finzione.

Salizzoni figlio di operai eporediesi, laureato a Torino, specializzatosi in chirurgia epatica a Parigi, Bruxelles e Hanoi. Primario alle Molinette dal 1993. E' quello che ha operato un immigrato irregolare senza permesso di soggiorno perché “la vita viene prima di tutto”. È quello che, nel 2002, ha denunciato le condizioni sanitarie dell’ospedale in cui lavorava, portando a processo dirigenti per epidemie di legionella e aspergillosi. È quello che ha fatto trapianti al buio, letteralmente, su pazienti affetti da Porfirio e per i quali l’esposizione alla luce poteva essere letale. 

È anche uomo di politica, con la stessa passione e coerenza con cui ha operato. Arrestato durante le proteste del Sessantotto, iscritto al PSIUP, poi al PCI, nel 1991 passa a Rifondazione Comunista, quindi ai Comunisti Italiani nel 2008, quando il governo Prodi cade per i due senatori “traditori” di Rifondazione. Sempre fuori dalle mode. Quando tutti si iscrivevano al Pd di Renzi, lui se ne stava alla larga ma quando tutti scappavano, a fine 2022, lui prendeva la tessera a Mirafiori Nord, sperando in un ritorno al partito dei lavoratori, degli esclusi, dei deboli.

Nel 2019 si è candidato su invito di Sergio Chiamparino, prendendo oltre 18.000 preferenze. Una valanga. Ma nel 2024 il suo nome era stato cancellato con un colpo di bianchetto dalle liste del Pd per far spazio alla candidatura di Gianna Pentenero. Quando lo ha scoperto, era in aula consiliare. Microfono acceso. Il “vaffanculo” gli è sfuggito di bocca. Istintivo, ruvido, vero. 

Eppure, dopo quella rinuncia forzata, il suo nome è tornato sulla bocca di tutti, quando Raffaele Gallo, finito nell’inchiesta Echidna con il padre Sasà, ha lasciato il posto nella lista. E lì, il Pd si è messo a cercare il "nome pulito". Una settimana di preghiere, richieste, rinunce. Nessuno voleva quel seggio “maledetto”. Neppure Roberto Montà, né Maria Josè Fava di Libera. Neppure Davide Mattiello o Antonella Parigi. Alla fine, si è tornati da lui. Dal medico, dall’intellettuale, dal resistente, dal comunista

“Come sto? Non sto benissimo. Sono a disposizione del partito, ma non mi candido.” s'era confidato con noi.

“Fino all’altro ieri avrei detto che nel Pd ci sono solo brave persone. Ora non più. Quello che ho letto mi ha sbalordito. Si raccoglie ciò che si semina.” E ancora: “Manca un’idea di centrosinistra. Si cercano accordi con forze ideologicamente lontane. Nessuna unità. Nessuna visione. La politica è diventata un mestiere. Uno stipendio fisso. Una poltrona da difendere a ogni costo.”

Salizzoni, invece, viene da un tempo in cui si candidavano gli operai e gli intellettuali. Quelli che tornavano in fabbrica. Quelli della Resistenza. Quelli che la politica non la facevano per sé ma per chi non aveva voce. “C’è molto da rimpiangere”, s'era lasciato andare allora.

Nel 2022 aveva fatto discutere per il suo post pacifista sulla guerra in Ucraina. “Putin va condannato. Ma l’oltranzismo porta al disastro. Serve un negoziato. Entrare in guerra è come buttarsi da un palazzo: a metà caduta, vuoi sapere da me cosa fare?” Alcuni lo avevano definito “scandaloso”. Lui aveva risposto colpo su colpo. Senza cedere di un millimetro.

Salizzoni è così. Indipendente, radicale, onesto. Uno che scrive con la pancia ma agisce con la testa. Uno che correva – letteralmente – tutti gli anni tra Ivrea e il Mombarone. Uno che ha ancora la forza di guardare dentro la politica, pur restando fuori dalla mischia. Uno che quando parla, ti costringe a pensare. E forse a vergognarti un po’.

Alla fine, quel bottiglione vuoto è un simbolo. Di una politica svuotata, certo. Ma anche di una sinistra che non sa più fidarsi, né farsi carico. Lui lo ha fatto, da sempre. Lo fa ancora. Anche da fuori. Perché chi ha imparato a curare il fegato con le mani, può ancora insegnare alla politica come si fa a non perdere il cuore, tutti seduti in trattoria, a bere vino buono.

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