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23 Luglio 2025 - 17:31
Elena Piastra. Sullo sfondo il campo nomadi di via Moglia
Ci risiamo. Quando non ci sono targhe da scoprire, convegni a cui partecipare in giro per l’Italia, inaugurazioni di piazze e panchine colorate o progetti PNRR da sbandierare a favore di telecamera, la sindaca Elena Piastra si rifugia nel suo fortino digitale preferito: Facebook. Dove può raccontare la rava e la fava a modo suo, senza contraddittorio, senza domande, senza nessuno che osi farle notare che le cose, fuori da quel social, stanno diversamente.
L’ultima uscita riguarda il campo nomadi di via Moglia, un’area talmente periferica, dimenticata e ai margini, che persino molti residenti di Settimo ignorano dove si trovi. Eppure è lì, in quel nulla urbanistico, che — a sentire la sindaca — si sarebbe consumata una grande operazione di legalità, condotta con la consueta combinazione retorica di “fermezza e attenzione”.
Scrive: “Si è proceduto con l’abbattimento e lo smaltimento totale di tutte le costruzioni abusive e con l’allontanamento di tutte le persone presenti”.
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E invece no. Non è vero. Il campo non è stato del tutto svuotato. Ci sono ancora roulotte e persone che ci vivono. Altre, forse, se ne sono andate. Ma nessuno sa dove, e se davvero siano state “allontanate”. Di certo, non c’è stato nessuno sgombero come quelli che piacciono ai politici di destra con tanto di ruspe all’alba. Lì non è arrivato nessuno. Solo una lettera del Comune — neanche un’ordinanza vera — che annunciava un imminente abbattimento. Allora le famiglie, per non rischiare multe o guai peggiori, si sono demolite da sole le loro casette in legno.
Nessuna ruspa, nessun blitz, nessun agente in tenuta antisommossa. Solo la paura. Solo la solitudine. Solo l’ennesima resa.
E allora raccontiamola bene, questa storia. Quelle famiglie sono di origine montenegrina, in Italia da oltre quarant’anni. Vivono su terreni di loro proprietà. Le due casette — fatte di legno, modeste, costruite senza permesso — sono state abbattute spontaneamente. Secondo la legge — quella vera, non quella dei post indignati — chi demolisce autonomamente le strutture abusive può sanare la situazione. Ed è esattamente ciò che hanno fatto.
Ma la sindaca, nel suo lungo e fumoso post, preferisce un’altra versione. Una narrazione epica, dove lei incarna la legalità e tutti gli altri sono “post in maiuscolo grassetto con i punti esclamativi”. Quelli che, a suo dire, parlano senza sapere.
“Abbiamo fatto rispettare la legge, la sicurezza esiste solo dove c’è legalità, tutto il resto sono chiacchiere”, scrive. Sembra Matteo Salvini, e invece è ancora lei: Elena Piastra, la sindaca che mira alla candidatura a presidente della Regione Piemonte, e che da tempo sembra parlare a un elettorato diverso da quello del centrosinistra.
Ecco il vero “progetto Piastra”: fare la voce grossa con chi non ha voce. Con chi non può replicare. Con chi si arrangia. Con chi, alla fine, paga per tutti.
Eppure un’altra verità esiste. Una verità meno utile ai post, ma più utile alla giustizia. I campi nomadi, secondo l’Unione Europea, devono essere superati entro il 2030. Superati, non abbattuti. Superati, cioè trasformati in percorsi di inclusione: alloggi regolari, dignità, possibilità. Non ruspe. Non demolizioni simboliche. Non il nulla.
Del resto, quei campi sono figli di scelte politiche precise, spesso fatte proprio dai sindaci di centrosinistra. C’era un tempo in cui le amministrazioni decidevano di costruire “campi attrezzati”, nel nome di una convivenza che si è rivelata segregazione. Scelte sbagliate, che oggi ricadono sulle famiglie e mai su chi le ha decise. Oggi quelle stesse famiglie diventano bersagli perfetti per chi cerca visibilità, ordine pubblico da sventolare, sicurezza da brandire.
Il post della sindaca è lento, contorto, confusionario. Misura le parole come se stesse parlando alla Camera, ma poi scivola tra l’autocelebrazione e l’ambiguità. Ringrazia tutti — tecnici comunali, carabinieri, servizi sociali, polizia locale — come se avessero salvato un villaggio in fiamme. Ma nessuno ha salvato nessuno. Si è solo chiuso un capitolo, senza aver mai scritto il successivo.
E allora le domande non sono retoriche. Sono concrete.
Dove sono finite le famiglie che hanno demolito le loro case? Hanno ricevuto un alloggio? Sono state inserite in un piano casa? Hanno ottenuto assistenza per l’affitto? Una casa popolare, un progetto, qualcosa?
Niente. La sindaca non lo dice. E probabilmente non lo sa. O preferisce non dirlo. Ma intanto, il campo — quello vero — è ancora lì. Solo con qualche baracca in meno. Ma ci sono ancora persone. Gente che vive lì, tutto il giorno, anche oggi.
E allora viene naturale chiedersi: è questo il modello Settimo? Un po’ Pd, un po’ Lega. Un po’ legalità, un po’ propaganda.
Un po’ grigio, un po’ grassetto.
Scrivere un post indignato è facile. Scrivere un progetto vero è difficile. Costruire una visione costa fatica. Demolire una casetta di legno, molto meno. Se non c’è un percorso, se non c’è una casa, se non c’è nulla dopo l’abbattimento, forse sarebbe stato meglio lasciarle in piedi, quelle casette. Almeno lì c’era una porta. E forse anche un po’ di dignità.
Ah, giusto, dimenticavamo un dettaglio. Nel provvedimento si chiede anche la rimozione di un pavimento in cemento. Ma è ancora lì. Le famiglie hanno risposto: “Mandateci le ruspe, come facciamo a toglierlo noi?”
Già. Come si fa? Forse con un post. In grassetto. Con i punti esclamativi.
Elena piastra ha scritto il post su Facebook sotto una foto che inquadra un angolo del campo. La verità sta, invece, nel video che abbiamo girato noi, dove si vedono chiaramente le roulotte.
La foto pubblicata dalla sindaca
C’è un modo semplice per riconoscere una bugia in politica: guardare chi la racconta, come la racconta e a chi è rivolta. E nel caso della sindaca di Settimo Torinese, Elena Piastra, tutto è chiarissimo. I fatti, ormai, li conosciamo: a via Moglia non c’è stato nessuno sgombero, nessun intervento spettacolare, nessun piano casa, nessuna inclusione. Solo famiglie che si sono auto-demolite la propria vita, per paura, per silenzio, per mancanza di alternative. Eppure su Facebook si celebra l’ennesima “vittoria della legalità”, si ringraziano i carabinieri, i tecnici comunali, i servizi sociali, si recita la parte dell’amministrazione umana ma inflessibile, giusta ma concreta, compassionevole ma severa. È il solito teatro delle parole.
Solo che stavolta il sipario è strappato, e dietro non c’è un modello progressista. C’è la maschera — appena spostata — di una sindaca vetero-leghista. Una che ha studiato bene Salvini, e che lo imita nel tono, nella postura, nei bersagli. Con la differenza che lei sta nel centrosinistra, quello che a parole dovrebbe parlare di accoglienza, di coesione sociale, di diritto all’abitare. Ma che nei fatti, quando si tratta di fare propaganda, usa gli stessi strumenti, le stesse scorciatoie, la stessa brutalità semantica della destra.
Perché se togli la felpa a Salvini e gli metti una giacchetta di lino, un paio di occhiali e qualche parola dolce nei post, il meccanismo resta lo stesso: governare con la paura e comunicare con la semplificazione. Colpire i deboli per farsi vedere forte. Fare la voce grossa con chi non ha voce. Le famiglie che vivevano da oltre vent’anni in via Moglia diventano così il capro espiatorio perfetto: nessun comitato a difenderle, nessuna lobby a sostenerle, nessun giornale amico a piangerle. Solo una testata locale che ancora si ostina a dire le cose come stanno.
Il problema non è solo locale. È culturale. È il problema di un centrosinistra che ha introiettato il linguaggio securitario della destra, che ha smesso di distinguersi, che ha paura di sembrare “buonista” e allora cerca di essere più “serio”, più “concreto”, più “duro”. Ma in questo scivolamento identitario, perde tutto: perde i valori, perde la coerenza, e alla fine perde pure il voto dei fragili, che non si fidano più. Perché se devono votare qualcuno che urla “legalità” senza dire “giustizia”, tanto vale votare l’originale, non la brutta copia.
Elena Piastra non è un’eccezione. È un segnale. È il simbolo di un modo di amministrare che spaccia per riformismo quello che è puro autoritarismo di facciata. È la testimonianza che dietro tante bandiere arcobaleno, tanti convegni sulla disabilità e l’inclusione, può celarsi una visione dell’urbanistica che fa ancora distinzione tra cittadini “di serie A” e “di serie B”. È la dimostrazione che il post su Facebook ha sostituito il bilancio sociale, e che oggi si governa più con i like che con i progetti.
In tutto questo, un fatto resta certo: a via Moglia c’è ancora gente che vive lì. Solo con qualche baracca in meno.
Silvia
L'anziana madre
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