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16 Luglio 2025 - 07:22
Foto d'archivio
Silenzio, per favore. Non correte, non gridate, non ridete troppo forte. E, se possibile, non esistete.
Sembra questo, in sintesi, il messaggio che arriva dall’ultima ordinanza firmata dal sindaco di San Benigno Canavese, Alberto Graffino, datata 11 luglio 2025. Un foglio ufficiale, due pagine, intestazione in alto e in fondo il timbro della Polizia Locale, che entra di diritto nella lunga lista dei provvedimenti italiani che mettono al bando il gioco più semplice e popolare di tutti: il calcio nei parchi pubblici.
L'ordinanza, la numero 3/25, riguarda il parco comunale di via Trento. Un’area verde frequentata da “persone adulte e minori che disturbano la quiete pubblica o arrecano danni alle attrezzature”, si legge nel testo. E allora, via con la regolamentazione: orario di accesso limitato dalle 9 alle 21, e – soprattutto – divieto di giocare a pallone nelle ore serali. Pena? Una multa da 25 a 500 euro.
Tant’è.
Ma davvero siamo arrivati a questo punto? A pensare che un pallone che rimbalza sia più pericoloso di un motorino truccato? Che quattro ragazzi che fanno due passaggi siano più dannosi di una bottiglia spaccata sul selciato? Che il vero nemico del decoro urbano sia il suono di una risata, non il degrado di chi i parchi li lascia abbandonati?
Eppure il tono dell’ordinanza è serissimo. Parla di “pregiudizio per i diritti fondamentali altrui”, di “condizionamento negativo della fruizione degli spazi pubblici”, di “decoro del paese”. Un lessico solenne, con tanto di riferimenti al Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, ai decreti del Ministero dell’Interno e a leggi che, forse, mai avrebbero immaginato di essere invocate per vietare una rovesciata su un prato.
Alberto Graffino sindaco di San Benigno Canavese
Ma qual è il vero problema?
Ce lo chiediamo da cronisti, ma anche da genitori. È davvero il pallone a costituire un pericolo per la società? O è la facilità con cui si ricorre a divieti, a restrizioni, a regolamenti sempre più stringenti per anestetizzare il conflitto, eliminare il fastidio, cancellare il movimento?
Il parco di via Trento, va detto, è stato oggetto di segnalazioni. Rumore, piccoli danni alle attrezzature, comportamenti ritenuti poco rispettosi. Tutto vero. Ma se l’unica risposta che sappiamo dare è vietare, allora c’è un problema più profondo. Un problema che riguarda la nostra idea di spazio pubblico, di convivenza, di educazione.
Giocare a pallone è diseducativo?
Se lo chiede, giustamente, più di un cittadino. Perché dietro al divieto, non c’è solo la volontà (comprensibile) di tutelare la quiete. C’è anche, implicitamente, un giudizio. Il pallone, in certe ore e in certi luoghi, viene equiparato a un comportamento molesto. Come se fosse sempre sinonimo di maleducazione. Come se chi lo calcia non potesse mai farlo con rispetto, attenzione, civiltà.
Eppure è proprio il gioco che dovrebbe insegnare tutto questo. Il rispetto delle regole, il turno, il passaggio, la collaborazione, la gestione della frustrazione. Ma per insegnare tutto questo i ragazzi devono poter giocare. Devono avere spazi. Devono avere margine di errore. Devono – sì – anche sbagliare.
Ma allora dove possono giocare?
Nei cortili? Vietato.
Nelle piazze? Pericolo.
Nelle strade? Impossibile.
Nei parchi? Solo se non fanno rumore.
Nei campetti sportivi? Quando sono aperti. Quando non ci sono tornei. Quando non costano.
E intanto aumentano le ordinanze. Le multe. I cartelli rossi con la scritta “Vietato giocare al pallone”. Ne abbiamo trovati a Fossano, a Pieve di Teco, a Lipari, a Figline e Incisa Valdarno, a Grottammare, a Montecchio Maggiore, e ora anche a San Benigno Canavese .
Il punto non è l’ordinanza. Il punto è il messaggio che diamo.
Un messaggio che dice ai ragazzi: siete un problema. Non c’è spazio per voi. Il vostro entusiasmo disturba. Il vostro bisogno di stare insieme, di correre, di fare rumore, va regolato, contenuto, represso. Come se i parchi fossero solo per camminare piano. Come se il decoro fosse più importante della crescita.
Ma forse siamo già in una società per vecchi. Dove tutto dev’essere immobile, silenzioso, previsto. Dove si combattono i vandalismi mettendo le telecamere, ma si dimentica la prevenzione vera: quella fatta di educatori, spazi, relazioni, fiducia.
Perché se è vero che alcuni adolescenti fanno danni, la risposta non può essere punire tutti. Non può essere vietare il gioco. Non può essere multare una partita improvvisata tra amici. A maggior ragione se giocano in un parco, non in mezzo alla strada. Non davanti a una vetrina. Non su un sagrato.
Il rischio è perdere di vista le priorità.
Vogliamo davvero una generazione che cresce su YouTube, che si chiude in casa, che smette di sudare? Vogliamo che a 12 anni conoscano le skin di Fortnite ma non sappiano cosa vuol dire fare un assist al volo? Vogliamo ragazzini zitti, fermi, scollegati?
Allora sì, continuiamo così.
Mettiamo altri cartelli. Aumentiamo le sanzioni. Regolamentiamo le risate.
Ma non lamentiamoci se poi i nostri figli non sanno più stare con gli altri. Se non hanno spirito di squadra. Se non reggono le frustrazioni. Se diventano apatici, o violenti.
Una società per ragazzi ha bisogno di spazi per i ragazzi.
E non solo di spazi fisici. Di spazi mentali, sociali, culturali. Di un’idea diversa di sicurezza, che non sia solo repressione.
E allora permetteteci una domanda: è davvero il pallone il problema del parco di via Trento? O forse è solo il bersaglio più facile?
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