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03 Luglio 2025 - 23:12
C’è un luogo dove le parole si fanno libertà. Un luogo dove scrivere è resistere, raccontare è guarire, pubblicare è gridare al mondo che sì, anche in carcere si può vivere da cittadini. È la redazione de “L’Alba”, il giornale della Casa Circondariale di Ivrea. Un piccolo miracolo editoriale che esiste da quasi venticinque anni. Un foglio di carta che vale più di tante conferenze stampa, perché nasce da dentro. Dalle celle, dai corridoi sorvegliati, dai lunedì e mercoledì pomeriggio in cui, con pazienza e rigore, i detenuti delle sezioni comuni si ritrovano a leggere, riflettere, confrontarsi, scrivere. A fare informazione.
“L’Alba” è nato nell’ottobre del 2000 grazie all’intuizione e all’umanità di Santino Beiletti, volontario e assistente penitenziario, cui oggi è intitolata l’associazione editrice.
Insieme a lui, il ricordo indelebile di Giuliana Bertola, una presenza che ha illuminato anni di impegno silenzioso. Dal 2012 il periodico è registrato presso il Tribunale di Ivrea, con Federico Bona nel ruolo di direttore responsabile.
Ma non è tutto rose e fiori. Da un paio d’anni a questa parte, il lavoro della redazione è diventato più difficile. Più ingessato. Più controllato. È stata imposta l’anonimizzazione degli articoli – “gli autori non possono più firmare con nome e cognome” – e ogni pezzo deve passare sotto la lente preventiva della Direzione.
Il risultato? Censure di fatto, rimozioni arbitrarie, e una selezione fondata su criteri di “opportunità”. Come se la verità, in carcere, dovesse essere filtrata da chi ha il potere, e non costruita da chi la vive ogni giorno sulla pelle.
“Abbiamo subito queste limitazioni senza condividerle” – scrivono i volontari dell'Associazione Assistenti Volontari Tino Beiletti presieduta da Armando Michelizza – “per non far venir meno la possibilità stessa di tenere in vita la redazione. Ma è una forma di resistenza passiva. Siamo convinti che i diritti dei detenuti siano anche nostri”.
E non sono soli. In tutta Italia ci sono redazioni che, come L’Alba, fanno informazione dalle carceri. Realtà editoriali nate tra le mura delle case di reclusione di Padova, con Ristretti Orizzonti, e di Parma, con Ristretti Parma; a Milano-Opera si pubblicano sia Cronisti in Opera che Operanews, mentre Carte Bollate racconta da anni la realtà di Bollate. A Roma Rebibbia si scrive Non tutti sanno, a Fossombrone Mondo a Quadretti, a Ferrara Astrolabio, a Verona Montorio Itaca, a Bologna NeValeLaPena, a Venezia Ponti, a Quarto d’Asti Gazzetta Dentro, a Lodi l’inserto Altre Storie, mentre a Trento c’è Non solo Dentro, e a Marassi Ristretti Marassi. Ci sono anche esperienze più ibride come Voci di Dentro, il sito L’Altra Riva, la web radio Caffè Italia Radio, Liberi Dentro Eduradio&TV, Salute InGrata 2, e tutte chiedono con forza che venga garantita libertà d’espressione anche in carcere.
La lettera inviata il 7 aprile 2025 al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non lascia spazio ai fraintendimenti: “Abbiamo cercato con senso di responsabilità e professionalità di fornire una informazione attenta, precisa, documentata sulla realtà carceraria, proprio perché la sfida è rispondere con precisione e sincerità a una informazione spesso imprecisa e menzognera che arriva dal mondo libero”. E ancora: “ci scontriamo ogni giorno con ostacoli e barriere che in vario modo condizionano pesantemente il nostro lavoro”.
Tra le richieste più forti, quella di poter finalmente usare gli strumenti essenziali per fare giornalismo: “registratore, macchina fotografica, connessione Internet”.
E viene citata anche la circolare DAP del 2 novembre 2015, che riconosce che “l’utilizzo degli strumenti informatici da parte dei detenuti ristretti negli Istituti penitenziari appare oggi un indispensabile elemento di crescita personale ed un efficace strumento di sviluppo di percorsi trattamentali complessi”. Ma, nonostante le buone intenzioni della burocrazia, le tecnologie restano fuori dalle mura.
Poi ci sono i tempi, i permessi, le attese. “Articoli che parlano del caldo asfissiante nelle celle e vengono autorizzati a Natale”, scrivono nella lettera, “richieste di ingresso per ospiti significativi che arrivano con lentezza esasperante, attese snervanti per introdurre materiali indispensabili per il nostro lavoro”. Tutto ciò, dicono, “finisce per vanificare il lavoro delle redazioni”.
La richiesta al DAP è chiara: “Giornali, podcast, trasmissioni radio-TV, laboratori di scrittura sono una ricchezza culturale che va salvaguardata e facilitata”.
Per questo, le redazioni firmatarie chiedono un incontro. E confidano che sia alle viste.
Perché un giornale in carcere non è solo carta stampata. È un luogo dove si impara a pensare. Dove si cresce. Dove ci si confronta senza urlare. Dove si riscopre la possibilità di una vita diversa. Non a caso il presidente Sergio Mattarella continua a ricordarlo: “Il carcere non deve solo punire. Deve educare, deve aiutare le persone a diventare partecipi della comunità”.
Ecco allora che L’Alba – con i suoi oltre 300 abbonati postali, con le sue pagine scritte tra le sbarre, con la forza mite di chi non ha mai smesso di credere nella parola – rappresenta qualcosa di più di un foglio mensile. È la prova vivente che anche tra i muri più spessi può entrare la luce. E che, come in ogni alba che si rispetti, l’oscurità non può durare per sempre.
C’è chi grida per avere più repressione. E c’è chi, in silenzio, costruisce cittadinanza dentro il carcere. C’è chi invoca più telecamere, più manganelli, più chiavi, più sbarre. E c’è chi prende una penna, un foglio, un’ora d’aria e prova a farci una domanda, un titolo, un dubbio. Chi scrive in carcere – chi si batte per pubblicare anche solo una riga – non chiede favori. Chiede diritti. Diritti scritti nella Costituzione. Diritti che fanno tremare i muri, perché sono più forti di qualunque serratura.
I volontari, gli educatori, i giornalisti che da anni portano avanti esperienze come L’Alba, Ristretti Orizzonti, Carte Bollate non fanno folklore. Fanno democrazia. E la democrazia, se è vera, non si ferma ai cancelli blindati. Non ha paura delle voci che arrivano dalle celle. Non pretende che i detenuti tacciano: pretende che abbiano strumenti per pensare. E per raccontare. Non in quanto “buoni”, ma in quanto persone. Persone che, se davvero crediamo nella funzione rieducativa della pena, devono poter tornare nella società non come ombre, ma come cittadini.
Il punto non è solo difendere un giornale. È difendere il principio per cui anche l’ultimo tra noi ha diritto di dire la sua. Il principio per cui la parola – la parola libera, vera, scomoda – è parte essenziale del reinserimento. Chi ha paura di un detenuto che firma un articolo con nome e cognome, ha già perso la sfida della giustizia. Chi censura, chi impone “visioni preventive”, chi nega internet o un registratore, non tutela la sicurezza: mortifica la crescita.
In un Paese in cui l’opinione pubblica è sempre più abituata a slogan semplici, la voce di chi scrive dal carcere rischia di non essere ascoltata. Eppure quella voce ci riguarda. È lo specchio della nostra civiltà. È la cartina di tornasole del nostro sistema penale. È la misura esatta della differenza tra uno Stato democratico e uno Stato vendicativo.
Chi oggi difende L’Alba e gli altri giornali nati tra le sbarre, difende molto più che un foglio di carta. Difende l’idea che riabilitare significa anche fidarsi. E che fidarsi significa offrire spazio, ascolto, strumenti. Non basta più ringraziare chi dedica il proprio tempo a queste esperienze. Occorre garantire che possano continuare. Senza censure. Senza silenzi imposti. Senza paura.
Perché se il carcere non educa, allora è solo vendetta. E se lo Stato ha paura della parola, allora ha paura della giustizia.
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