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Parkinson e depressione non li fermano: marito e moglie salgono in cima alla montagna con la forza dell'amore

L’impresa di Lodovico e Roberta: il CAI accompagna i Marchisio alla conquista del Motta

Parkinson e depressione non li fermano: marito e moglie salgono in cima alla montagna con la forza dell'amore

L'abbraccio tra Lodovico e Roberta in cima alla montagna

Non è una semplice escursione. Non è nemmeno un’impresa sportiva in senso stretto. È molto di più. È una dichiarazione di forza, di resilienza e, soprattutto, d’amore. Lodovico Marchisio e Roberta Maffiodo, marito e moglie, scrittori, alpinisti, ma soprattutto esseri umani con ferite profonde — lui affetto da morbo di Parkinson, lei da depressione — sono tornati là dove un anno fa avevano sperimentato fatica, dolore, paura. Sono tornati sul Monte Motta, a Val della Torre, e stavolta hanno vinto.

Venerdì 27 giugno, accompagnati da amici, membri del CAI e sostenitori, hanno conquistato nuovamente la vetta. Ma non quella della montagna soltanto: hanno conquistato la vetta interiore del coraggio. Una rivincita sulla malattia, sullo sconforto, sulla solitudine che certe esperienze sanno farti sentire anche quando sei in compagnia.

Il ritorno dove tutto era iniziato

Era il 21 agosto 2024 quando i due coniugi avevano tentato, in autonomia, la salita al Monte Motta percorrendo un sentiero abbandonato da anni, sulla dorsale Nord-Est. Un tracciato in completo disuso, avvolto da vegetazione fitta e insidiosa, non segnalato, pericoloso. Un'avventura finita con una discesa al limite del buio e il provvidenziale intervento del figlio Walter per riportarli a casa. Ma quell’esperienza li aveva segnati. E non solo fisicamente. Aveva lasciato una traccia, una frattura profonda, un’ombra nella memoria.

Eppure da quell’ombra è nata luce. È nato un libro: Guarigioni d’Amore. Una testimonianza intensa, profonda, sincera. Un grido sussurrato al mondo: non si guarisce mai da soli. Un inno alla bellezza della condivisione, del sostegno reciproco, della potenza dell'amore nelle sue forme più pure.

Il 12 giugno scorso, presso la sede del CAI di Val della Torre, il libro è stato presentato davanti a un pubblico commosso e partecipe. Al fianco dei due autori c’era Luciano Pacchiardo, presidente del CAI locale, che, colpito dal loro racconto e dal dolore ancora presente nei loro occhi, ha fatto una proposta concreta: “Tornate sul Monte Motta con noi. Questa volta, ve lo prometto, sarà diverso.”

E così è stato

Il 27 giugno si sono ritrovati tutti all’inizio del sentiero, in via Sis. Con Luciano Pacchiardo, c’erano anche Giovanni Visetti, referente della sentieristica e curatore della biblioteca comunale, il musicista Lorenzo Belletti, la scrittrice Rosanna Carnisio e due accompagnatori volontari del CAI. Un gruppo unito, affiatato, mosso non dalla voglia di primeggiare, ma dalla volontà di trasformare una ferita in una cicatrice da accarezzare.

Il sentiero, quello giusto stavolta, si snoda dolcemente tra le praterie alpine e costeggia le baite, con lo sguardo che si apre sulla pianura torinese, sulla basilica di Superga, sui profili dei monti Baron e Rosselli. In primavera è un’esplosione di colori: viole, primule, barba di capra. E tra i rami di betulle, pini e noccioli, si fa sentire il verso del cuculo. Una natura viva, che accoglie e consola.

Il tempo di percorrenza è normalmente attorno ai 30-40 minuti, ma per i coniugi Marchisio è stato di circa un’ora e mezza per la salita, e un’ora per la discesa. Ma non è importante. Perché ogni passo era un passo oltre il dolore. Lodovico con il suo Parkinson, Roberta con i suoi pensieri cupi e un ginocchio dolorante. Nessuno si è arreso. Nessuno ha mollato. In vetta ci sono arrivati, di nuovo, ma stavolta con un sorriso.

I coniugi Marchisio e Luciano Pacchiardo

Una croce, una promessa

Sulla cima del Monte Motta c’è una piccola croce in legno, semplice, rudimentale. È lì che, quasi un anno fa, i due si erano fermati esausti, provati, smarriti. Questa volta ci sono arrivati accompagnati, accolti. E hanno potuto guardare in basso senza quel senso di vuoto.

“Stavolta è stato tutto diverso. Abbiamo risalito il sentiero giusto, abbiamo respirato insieme, passo dopo passo. Lì in cima abbiamo lasciato un pezzetto del nostro passato e ci siamo portati via qualcosa di nuovo, di nostro”, avrebbe detto Lodovico alla fine.

Roberta ha voluto impreziosire la salita con la sua voce. Soprano d’anima, ha letto e cantato passi del libro, poesie e parole che sanno di rinascita, accompagnata alla fisarmonica da Lorenzo Belletti. Il risultato? Emozione pura. Nessuno è rimasto indifferente. Perché la musica, come l’amore, arriva dritta dove serve.

Il valore della cura

Il Monte Motta non è l’Everest. Ma non importa. A renderlo speciale non è la quota — 627 metri — ma il significato. La sua cima è diventata simbolo di cura, ascolto, riconoscimento. È lì che Carlo Tappero, il sindaco di Val della Torre, ha voluto dare spazio a questa storia, convocando il CAI, sostenendo l’iniziativa, capendo che certe imprese valgono più di mille eventi ufficiali.

E proprio Giovanni Visetti, profondo conoscitore della zona, ci ha raccontato cosa rende unico questo monte: la biodiversità, la luce, la prospettiva che offre sul paesaggio e, oggi, anche la sua storia di rinascita.

Il messaggio che resta

L’impresa dei coniugi Marchisio è tutto tranne che retorica. È concreta, vera, faticosa. E lascia un messaggio potente: non c’è ostacolo che l’amore non possa almeno provare a superare. Non c’è malattia che possa spegnere del tutto la voglia di esserci, di vivere, di mettersi ancora una volta in gioco.

Oggi sappiamo che sul Monte Motta un sentiero esiste, è percorribile e può condurre alla vetta, ma sappiamo anche che il vecchio sentiero non va ripristinato. L’esperienza del 2024 lo ha dimostrato. La sicurezza prima di tutto.

Ma soprattutto, oggi sappiamo che esistono persone come Lodovico e Roberta, capaci di trasformare la sofferenza in testimonianza, la paura in coraggio, la salita in poesia. E questa, più di ogni altra cosa, è la vera impresa.

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