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A Settimo spendono 800 mila euro all'anno per questo schifo!

Il verde pubblico di Settimo Torinese tra appalti sociali e degrado diffuso

Giardinetti di via Silvio Pellico

Giardinetti di via Silvio Pellico

Ci risiamo. E no, non è un déjà-vu. È proprio Settimo Torinese, stagione estiva, episodio 245. Titolo provvisorio: “La giungla cresce, la giunta tace”. Ma sarà una telenovela lunga, tipo Beautiful. Le immagini che vi mostriamo oggi — scattate in via De Francisco e in via Silvio Pellico — sono già cult.

Altro che verde urbano a misura di insetti impollinatori, come ci raccontano ogni anno con la faccia fiera e il comunicato precompilato. Qui gli unici impollinatori sono i topi, le nutrie, le vipere e i ratti a pelo lungo, che si aggirano indisturbati tra ciuffi d’erba alti quanto un bambino. Altro che tagli dell’erba: siamo al bosco verticale. Solo che non è a Milano. È in mezzo ai palazzi di Settimo.

Eppure il Comune, attraverso la sua società Patrimonio Città di Settimo Torinese, ha affidato un appalto da 2 milioni e 787 mila euro per la manutenzione triennale di circa 500 mila metri quadri di verde pubblico. Fate i conti voi: sono più o meno 800 mila euro all’anno, quanto basta in altre città per dieci tagli regolari, per dare agli alberi anche il biberon tutte le mattine. 

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Via De Francisco

In questo quartiere? Di tagli?“Qui non se n’è fatto mezzo”, sbotta un cittadino che non ha il sangue alla testa, è proprio incazzato come una biscia. Letteralmente.

E quindi? Niente. L’appalto è stato vinto, guarda un po’, dall’unico partecipante, con un ribasso del 20 per cento: La Nuova Cooperativa Impresa Sociale, sede in via Carlo Capelli a Torino.

Perché? Perché la gara, ancora una volta, era stata scritta col pennarello indelebile del “sociale”. E quindi fuori le imprese vere, quelle che il verde lo tagliano per mestiere. Dentro il solito modello della cooperativa che ti fa il preventivo con le parole inclusione, fragilità, svantaggio. Che poi sulla carta è tutto bellissimo: immaginiamoci Mario, rimasto senza una mano, e Marco, affetto da sindrome di Down, intenti a tagliare l’erba con dignità e competenza. Magari con la musica classica in sottofondo e l’educatore che li incoraggia: “Bravi ragazzi, oggi tocca al parco giochi, domani alla rotonda!”.

Peccato che di tutto questo non si veda nulla. Nessun progetto trasparente. Nessuna relazione sugli inserimenti. Nessun controllo. Solo erba alta, incuria e topi. E allora la domanda sorge spontanea: dov’è il sociale? Chi l’ha visto? Chi lo verifica? Questo spendi e spandi serve davvero a migliorare la vita di qualcuno, o è solo l’ennesimo modo per affidare un appalto milionario in nome del bene, ma senza risultati?

Insomma una scelta politica e con questa logica, la città si trasforma: i marciapiedi diventano fossati, le rotonde piccole savane, le aiuole campi profughi per famiglie di roditori. A Settimo non si cammina più. Si attraversa. Con il machete.

L’anno scorso il problema era la pioggia, quest’anno è il sole. E quando brucia forte, qualcuno all’ufficio tecnico ti spiega che non si può tagliare l’erba perché fa troppo caldo. Se piove, non si può tagliare perché è troppo bagnata. E se non succede nulla, non si taglia comunque. Perché tanto “c’è l’appalto”.

La sindaca Elena Piastra, ex insegnante, ex innovatrice, ex speranza del centrosinistra, futura candidata alla presidenza della Regione Piemonte, non pervenuta. Sui social parla di futuro sostenibile, economia circolare, città intelligente. Ma il presente, sotto casa, puzza di muffa, urina di cane e marciume.

L’assessore al verde? Un personaggio di fiaba fissato sulla punteggiatura: si dice che esista, ma nessuno l’ha mai visto a fianco di un decespugliator*. Con l’asterisco.

Insomma, Settimo è ormai una città dove il verde pubblico non si gestisce, si racconta. Dove l’appalto è “inclusivo”, ma esclude la manutenzione vera.

E se ti lamenti, sei tu che non capisci la complessità. Il sociale. I vincoli di bilancio. Gli insetti. I calendari lunari. Oppure sei un fascista! Un meloniano. E lo dicono loro che han trasformato la politica in un'arena in cui imperversa di tutto: parrucchieri, giocolieri, opportunisti della cadrega, ballerini, ex di forza italia, ex di tutto...

Il problema è che non è solo una questione di verde. È un sistema di abbandono generalizzato. In via Silvio Pellico c’è un cestino dei rifiuti che sembra un'installazione di arte contemporanea alla raccolta differenziata: birre, pizze, cartoni, pannolini, sacchi appesi come addobbi natalizi.

Attorno: solo degrado. Se fosse arte, la chiameremmo “Insostenibile leggerezza della monnezza”. Ma non è arte. È solo sciatteria. Raso? Dimettiti! Con o senza asterisco...

Abituatevi al degrado (che è per il vostro bene)

C’è una nuova pedagogia urbana in atto. Non si insegna più l’educazione civica, ma la rassegnazione sistemica. L’obiettivo non è più migliorare le città, ma convincere i cittadini ad accettarle peggiori. Il problema non è l’erba alta: è che tu te ne accorgi. Il problema non è l’immondizia per strada: è che pretendi venga rimossa. Il problema non è l’appalto milionario che produce topi e bisce: è che fai troppe domande.

È in questo clima tossico che si muovono oggi molti amministratori locali, specialmente quelli "giovani" (per la cronaca Piastra governa da più di 15 anni), colti, progressisti, innamorati della propria idea di mondo, ma incapaci di guardare giù dal balcone. Hanno imparato che basta infilare parole come inclusione, sociale, sostenibile dentro un bando da due milioni e mezzo per blindarlo. E poi — se tutto va male — c’è sempre il greenwashing, il ricatto ecologista, l’ape regina che non trova più i fiori.

Così, ogni angolo di degrado viene giustificato da un nobile principio. L’erba non si taglia? È per salvaguardare gli insetti impollinatori. Le cooperative fanno un lavoro approssimativo? Ma vogliamo forse togliere il lavoro ai soggetti fragili? I cestini traboccano? Magari è colpa tua, cittadino che consumi troppo, che vivi troppo, che osi ancora buttare via qualcosa invece di fonderlo nel ciclo infinito della materia.

E chi protesta viene guardato con sospetto. Reazionario, meloniano, disinformato. O magari solo fastidioso. Perché se non capisci che le città devono diventare imperfette per forza di cose, allora sei fuori dal nuovo patto urbano. Quel patto in cui l’amministrazione non risolve, ma ti educa a sopportare. In cui non taglia l’erba, ma ti spiega con un post quanto è bello che cresca libera, insieme a vipere e topi.

E allora ecco che le giunte municipali diventano gruppi di storytelling, che producono narrazioni, slide, conferenze e post su Instagram mentre i marciapiedi si sgretolano. Il vero problema, per loro, è comunicare bene il fallimento, renderlo accettabile, ammantarlo di progresso, renderlo parte della tua nuova identità civica.

Ma un cestino pieno non è un gesto educativo. Una rotonda invasa dai rovi non è inclusione. Un parco lasciato al degrado non è equità sociale. È solo abbandono. E chi governa dovrebbe occuparsene. Punto. Senza asterischi, senza pretesti, senza retoriche post-sessantottine convertite in bandi per cooperative da affidare a rotazione. Senza l’ennesima conferenza sull’ecosistema urbano in cui si applaude la natura mentre i bambini non possono più giocare in un prato senza finire in un campo minato di deiezioni.

Il paradosso è questo: una classe politica che non governa più, ma predica. Che non fa, ma giustifica. E che ha trasformato le sue carenze in dogmi. La città è sporca? Sei tu che non la capisci. È disordinata? È colpa del cambiamento climatico, dei tagli statali, della guerra in Ucraina. Tutto, tranne l’evidenza: che sono loro a non fare il minimo sindacale.

Ecco perché bisogna riprendere a pretendere l’ovvio. Che le città siano pulite, sicure, curate. Che chi amministra risponda con i fatti, non con gli hashtag. Che il “sociale” non diventi la foglia di fico dietro cui nascondere inefficienza, opacità e clientele.

Il degrado non è sostenibile. L’abbandono non è una politica. E i cittadini non sono cavie del vostro esperimento educativo.

Ci vuole coraggio per dirlo? No. Ci vuole solo onestà.

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