Il 20 giugno 1975 il cinema cambiò per sempre. Quel giorno, nei multisala americani, fece il suo ingresso “Lo Squalo”, thriller marino firmato da un giovanissimo Steven Spielberg, allora ventisettenne. Nessuno poteva prevedere che quel film avrebbe inaugurato una nuova era dell’industria hollywoodiana, trasformando un romanzo di successo in un fenomeno culturale, commerciale e simbolico destinato a durare per decenni. Oggi, a cinquant’anni dalla sua uscita, “Jaws” è ancora un’icona: studiato, citato, imitato, e soprattutto ricordato come il primo vero blockbuster.
Ispirato al libro omonimo di Peter Benchley, il film racconta la storia dell’ufficiale di polizia Martin Brody, che deve difendere la comunità costiera di Amity da un gigantesco squalo bianco. Al suo fianco, l’oceanografo Hooper e il pescatore Quint. Un triangolo perfetto per mettere in scena la tensione, la paura e l’istinto di sopravvivenza. Ma la vera rivoluzione avviene dietro la macchina da presa.
Il modello meccanico dello squalo, soprannominato “Bruce” dalla troupe, funzionava malissimo. Spielberg, sotto pressione e con un budget che raddoppiava ogni settimana, decise di non mostrare quasi mai la creatura, affidando il compito di evocarla alla musica di John Williams. Due sole note, incalzanti, divennero l’essenza stessa del terrore. È da quell’invisibile che nasce la suspense. Ed è proprio nell’attesa, non nell’azione, che Spielberg reinventa il genere. Le riprese in mare aperto furono un inferno.
Il budget iniziale di 4 milioni di dollari lievitò a 9 milioni, i ritardi si accumulavano, la troupe lo rinominò ironicamente “Flaws” (difetti), giocando col titolo originale. Ma da quell’insieme di disastri nacque un capolavoro: 476 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, tre premi Oscar (montaggio, colonna sonora, suono), il primo film della storia a superare i 100 milioni di dollari negli USA.

Da lì parte l’era del grande cinema estivo. “Lo Squalo” fu il primo film distribuito su larga scala al momento dell’uscita, sostenuto da una campagna pubblicitaria capillare, gadget, passaggi televisivi, merchandising. I produttori intuirono che il cinema non doveva più solo raccontare storie, ma diventare evento sociale, condivisione, rito collettivo. Senza “Lo Squalo” non ci sarebbero stati né “Star Wars”, né “Jurassic Park”, né “Avengers”.
Ma il suo lascito va oltre il marketing. “Jaws” è anche un film simbolico, in cui il mare diventa metafora del caos, della natura imprevedibile, della paura primordiale. Lo squalo non è mai veramente “cattivo”: è un predatore che segue il suo istinto, una forza naturale che l’uomo tenta di controllare senza mai comprenderla del tutto. Nei decenni successivi, sono arrivati i sequel, le parodie, le citazioni. “Lo Squalo” è entrato nei parchi a tema, nei documentari, nei videogiochi, persino nella cultura marina popolare. Ma nessuno dei film successivi ha saputo replicare quella tensione perfetta tra visibile e invisibile. A distanza di cinquant’anni, “Lo Squalo” non ha perso un solo dente. È ancora proiettato, analizzato, studiato. È uno dei pochi film di genere ad aver lasciato un segno strutturale nella storia del cinema.
Steven Spielberg, oggi maestro assoluto del cinema, costruì la sua leggenda partendo da un mostro meccanico che non funzionava. Da un’idea che poteva affondare, e invece ha galleggiato sopra tutto, riscrivendo le regole.