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Cronaca
13 Giugno 2025 - 09:30
Israele ha colpito l’Iran. Con una precisione chirurgica e una potenza di fuoco che il Medio Oriente non vedeva da decenni, l’operazione "Rising Lion" è stata sferrata nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, spalancando la porta a uno scenario che ora ha il sapore amaro della guerra totale. "Un colpo d’apertura molto riuscito", ha dichiarato con voce ferma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, poco dopo la diffusione delle prime immagini delle esplosioni che hanno illuminato il cielo sopra Teheran, Isfahan e Natanz. L’aeronautica militare israeliana ha mobilitato più di 200 caccia da combattimento, guidati da un flusso costante di dati raccolti dall’intelligence, e in sincrono con operazioni di sabotaggio sotterranee condotte dagli agenti del Mossad.
Non è stata una schermaglia. Non è stato un messaggio. È stato un attacco preventivo su vasta scala, pensato e voluto per abbattere il cuore del programma nucleare iraniano. Le immagini satellitari e i video diffusi nelle ore successive hanno mostrato il sito di Natanz, epicentro dell’arricchimento dell’uranio iraniano, avvolto da fumo e rovine. Lì, secondo Israele, si stavano per compiere gli ultimi passi verso la realizzazione di una bomba nucleare. Netanyahu ha rivendicato l’attacco con parole durissime: "Abbiamo colpito il centro vitale del programma di arricchimento. Non possiamo permettere all’Iran di avere la bomba. Non ora. Non mai."
Ma a che prezzo? Perché tra i nomi delle vittime, riportati dai media iraniani e confermati da fonti israeliane, ci sono Hossein Salami, comandante delle Guardie Rivoluzionarie, Mohammad Bagheri, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, e Ali Shamkhani, consigliere politico della Guida Suprema. Quest’ultimo sarebbe morto nella propria abitazione, colpito da uno dei missili israeliani. E poi ci sono loro, gli scienziati. Sei in tutto, secondo l’agenzia iraniana Tasnim: Abdolhamid Minouchehr, Ahmadreza Zolfaghari, Amirhossein Feqhi, Motalleblizadeh, Mohammad Mehdi Tehranchi e Fereidoun Abbasi. Una lista che sembra uscita da un rapporto della CIA. Tutti nomi noti a chi, in Occidente, segue da anni le evoluzioni del programma nucleare di Teheran.
L’Iran ha subito reagito. "La risposta è un diritto legale e legittimo", ha dichiarato il ministero degli Esteri iraniano, accusando Israele di aver violato la Carta delle Nazioni Unite e minacciando gravi conseguenze per gli Stati Uniti, accusati di essere moralmente corresponsabili. La risposta non si è fatta attendere. "Oltre 100 droni kamikaze" sono stati lanciati in direzione di Israele. Alcuni sono stati intercettati dallo stesso Tsahal, altri sono stati abbattuti prima ancora di arrivare nello spazio aereo israeliano, grazie al coordinamento con Arabia Saudita, Emirati e Giordania. Ma la pioggia non è finita. Gli analisti ritengono che l’Iran possa colpire con missili balistici nelle prossime ore. Il capo dell'Idf, Eyal Zamir, ha parlato senza mezzi termini: "Siamo arrivati al punto di non ritorno. L’Iran ha abbastanza materiale fissile per produrre 15 bombe nucleari. Dovevamo agire."
Israel Katz, ministro della Difesa, ha annunciato "uno stato di emergenza speciale su tutto il territorio dello Stato di Israele". Lo spazio aereo è stato chiuso. I voli da e per Tel Aviv sono stati cancellati. I cittadini israeliani hanno ricevuto l’ordine di restare nei rifugi. Gli allarmi sui cellulari, come negli scenari distopici, servono per svegliarli durante la notte in caso di attacco imminente. E la popolazione ascolta, con le valigie pronte e il cuore pieno di paura. I riservisti sono stati richiamati. Le unità critiche dell’intelligence e della logistica sono in stato d’allerta.
In mezzo a questa bufera, le parole dei leader mondiali suonano quasi inadeguate. Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha assicurato che "nessun italiano è stato coinvolto né in Iran né in Israele", aggiungendo che "non esiste altra soluzione che quella diplomatica". Intanto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha convocato una riunione di emergenza con i vertici dell’intelligence italiana. Anche gli Stati Uniti si sono detti estranei all’operazione, ma Donald Trump, in un’intervista a Fox News, ha lasciato intendere di "sapere che Israele avrebbe colpito" e ha ribadito che "l’Iran non deve avere la bomba". L’ambiguità resta. E pesa.
Nel frattempo, i mercati hanno reagito con una violenza che testimonia la gravità della situazione. Il prezzo del petrolio è schizzato dell’8%, con il Brent a 74,47 dollari e il WTI a 73,48. Anche il gas ha registrato un rialzo significativo del 4%, tornando sopra quota 37 euro al megawattora. Segnali inequivocabili di un’instabilità che si sta trasformando in panico. Nessuna raffineria è stata colpita in Iran, secondo fonti ufficiali del governo di Teheran, ma la minaccia resta.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha confermato che l’impianto di Natanz è stato colpito, ma ha precisato che "al momento non si registrano aumenti di radiazioni". Una precisazione che, per quanto rassicurante, non cancella l’immagine di un attacco che ha coinvolto un sito sensibile, al centro delle preoccupazioni globali.
Nel cuore della notte, esplosioni si sono udite anche nei pressi della base militare di Parchin, a sud-est di Teheran, considerata da tempo un punto nevralgico per lo sviluppo di armi balistiche. Secondo il New York Times, Israele ha colpito almeno sei basi militari nei dintorni della capitale iraniana. Una guerra dall’alto, preparata da mesi, forse da anni. Mentre i raid proseguivano, fonti militari hanno parlato di una "seconda ondata" di attacchi, e non è esclusa una terza.
E nel mezzo di tutto questo, c’è Hamas, che ha dichiarato che "gli attacchi israeliani sono pericolosi e potrebbero destabilizzare l’intera regione", affermando che "l’Iran sta pagando il prezzo del suo sostegno alla Palestina". Le parole del movimento palestinese, benché prevedibili, alimentano il timore che il conflitto possa estendersi anche a Gaza, al Libano, alla Siria. Uno scenario da incubo. Ma sempre più realistico.
In queste ore, l’aria puzza di cordite e di paura. Gli occhi del mondo sono puntati su Teheran e Tel Aviv. Ogni secondo che passa senza una de-escalation è un secondo che ci avvicina al baratro. Le diplomazie lavorano freneticamente, ma nessuno sembra avere la forza o la volontà di imporre una tregua. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha chiesto moderazione, ma le sue parole, come spesso accade, si sono perse nel rumore assordante dei jet e dei missili.
Questo attacco cambia tutto. Non si tratta più di operazioni mirate, di rappresaglie, di guerre per procura. Qui si è abbattuta la maschera. È un confronto diretto tra due potenze regionali, con la bomba atomica sullo sfondo e un intero continente che rischia di esserne travolto. E il mondo guarda. Impotente. Terrorizzato. E, forse, colpevolmente impreparato.
Israele ha superato la linea. E il mondo si affaccia ora sul precipizio. Con l’operazione “Rising Lion”, Tel Aviv ha varcato una soglia che fino a ieri sembrava inviolabile: un attacco preventivo, massiccio, coordinato e letale contro il territorio sovrano di uno Stato, l’Iran, con cui non è ufficialmente in guerra. Un colpo che ha centrato il cuore del potere politico, scientifico e militare della Repubblica islamica. E che potrebbe essere ricordato, tra qualche anno – o forse solo tra qualche mese – come il primo atto della Terza guerra mondiale.
Perché si può discutere a lungo sulla legittimità di un attacco preventivo. Si possono elencare le provocazioni, le minacce, le ambiguità del regime iraniano. Ma resta il fatto, inconfutabile, che la scelta di Israele è una scelta unilaterale, violenta, destabilizzante. È una dichiarazione di sfida, non a un Paese, ma a un intero equilibrio regionale. E soprattutto: è una scelta che potrebbe avere conseguenze devastanti non solo in Medio Oriente, ma ben oltre.
Israele ha agito consapevolmente, pianificando un’operazione militare che ha ucciso leader politici, generali, scienziati. Ha colpito il centro di comando delle Guardie Rivoluzionarie, il programma missilistico, l’infrastruttura scientifica nucleare. Una decapitazione studiata a tavolino. E mentre Netanyahu sorride ai microfoni parlando di “colpo riuscito”, milioni di civili – iraniani, israeliani, libanesi, siriani – si preparano a vivere nei rifugi. Le famiglie dormono vestite. I voli sono cancellati. I prezzi del gas e del petrolio schizzano alle stelle. E l’ombra lunga della guerra torna ad allungarsi sull’intero pianeta.
Ma soprattutto, Israele ha scelto di agire senza il mandato delle Nazioni Unite, senza il consenso della comunità internazionale, ignorando appelli, trattative e qualsiasi forma di diplomazia multilaterale. E lo ha fatto mentre l’Occidente tace. Gli Stati Uniti, che “non erano coinvolti”, sapevano. L’Europa balbetta dichiarazioni di circostanza, parlando di “preoccupazione” e di “dialogo necessario”. Nessuno che osi dire quello che milioni di cittadini pensano: questa guerra non doveva cominciare così.
La retorica della legittima difesa non basta. Non quando si scatenano raid aerei su larga scala. Non quando si uccidono sei scienziati. Non quando si mira al cuore di un Paese con 86 milioni di abitanti e un arsenale di droni, missili, alleati regionali e aspirazioni egemoniche. Il rischio è che Israele, nell’illusione di essere protetto da scudi anti-missile e da alleanze storiche, abbia sottovalutato il potenziale incendiario del suo gesto. Perché Teheran non può permettersi di incassare senza reagire. E con Hezbollah al nord, Hamas a sud, Houthi nello Yemen, le polveriere sono ovunque.
Stiamo assistendo alla fine del concetto stesso di dissuasione. Si è rotto l’equilibrio della paura, quel sottile filo che per decenni ha impedito a Israele e Iran di affrontarsi direttamente. Ora è saltato. E nella guerra moderna, quando salta la deterrenza, non si sa mai dove si andrà a finire. Lo scontro diretto è già in atto. La guerra a pezzi, come l’aveva definita papa Francesco, rischia di diventare guerra totale.
E allora la domanda è una sola, ed è urgente: dove sono le diplomazie occidentali? Dov’è l’Unione Europea? Dov’è l’ONU? Perché in questo momento storico, non servono parole generiche, ma mediazione concreta. Serve qualcuno che abbia il coraggio di dire la verità: che Israele ha sbagliato. Che l’attacco all’Iran non solo ha fatto saltare ogni residua speranza di equilibrio regionale, ma ha messo a rischio la pace mondiale.
Chi oggi tace, acconsente. Chi oggi giustifica, legittima. Chi oggi non condanna, prepara il terreno a un’escalation fuori controllo. A un futuro fatto di droni in volo sopra le metropoli europee, di cyberattacchi agli ospedali, di conflitti asimmetrici e vendette incrociate. A un futuro di miseria, instabilità e morte.
Israele ha fatto la sua scelta. Ora tocca al mondo scegliere: la guerra o la pace. Non ci sono zone grigie. E il tempo, ormai, sta per finire.
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