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Prigioniera di 8 gradini: Silvia, sopravvissuta al tumore, è isolata da 210 giorni. “E' una battaglia con le barriere che mi tengono bloccata”

Serve un montascale da 7. 000 euro. Lo sa il Comune, lo sa l’ASL. Ma Silvia è ancora lì, dietro otto gradini

Torino

Silvia Allera

A Torino, dietro una finestra sempre chiusa e scale impossibili da scendere, vive Silvia Allera, 61 anni. Una donna con la voce gentile e gli occhi stanchi, che porta addosso il peso di due battaglie: quella per la salute, che l’ha segnata nel corpo, e quella contro un sistema che troppo spesso dimentica i più fragili. 

Tutto comincia nel marzo del 2023, quando a Silvia viene diagnosticato un tumore al seno triplo negativo, tra i più aggressivi. Inizia subito un percorso durissimo: quattro cicli di chemioterapia rossa, poi solo cinque delle dodici previste di quelle “bianche”, interrotte da un’embolia polmonare che la mette in pericolo di vita. Dopo tre mesi di paura, nel gennaio 2024 affronta con coraggio l’intervento al seno. 

Sembrava l’inizio della rinascita. Per festeggiare la fine delle cure e il suo sessantesimo compleanno, amici e parenti le organizzano una festa a sorpresa in un ristorante fuori Torino. Ma proprio quel giorno, sulle scale del locale, Silvia cade. Il suo corpo, ancora provato dalla chemio, non regge l’urto. 

«Mi sono letteralmente polverizzata il femore distale del ginocchio» racconta con voce rotta. È una frattura devastante. Un intervento di sette ore, e poi — dopo soli quindici giorni — una nuova operazione, stavolta per tentare di salvare la gamba da una grave infezione da sala operatoria. 

Seguono quattro mesi a letto, immobile, senza potersi lavare, senza potersi muovere. Alla fine, la sentenza: il ginocchio non si piega più. Da allora Silvia è su una sedia a rotelle. Ma non è tutto. 

«Il vero inferno è che da un anno sono prigioniera in casa. Vivo al secondo piano, ma per uscire in strada ci sono otto maledetti gradini. E da lì io non posso passare.» 

Le soluzioni offerte dalle istituzioni sono, nella pratica, inutilizzabili: una sedia speciale con cingoli, che però deve essere manovrata da due persone qualificate e disponibili a firmare una liberatoria. 

«Chi trovo che venga tre volte alla settimana, a orari precisi, e che si prenda anche la responsabilità legale di trasportarmi? Nessuno. Il risultato è che non metto il naso fuori da mesi.» 

Esiste una pedana montascale fissa che risolverebbe il problema: una struttura sicura, che le permetterebbe di uscire restando sulla sua sedia a rotelle. Ma costa settemila euro. 

«Il Comune, pur dispiacendosi, non la fornisce. Le ditte dicono che potrei recuperare la mobilità in dieci anni… Ma i soldi li vogliono subito. E io, che sono appena uscita da una malattia importante, non so nemmeno se tra dieci anni ci sarò ancora.» 

Silvia vive questa condizione con una dignità che fa male al cuore. Cambia da sola il pannolone, si veste, si arrangia in ogni cosa con uno sforzo disumano. Riceve solo qualche ora di aiuto settimanale da una cooperativa. Poi il silenzio ritorna. E con esso, la solitudine. 

«Mia figlia lavora tutto il giorno, dalle 8 alle 20.30. Ha la sua vita, un fidanzato. E io non voglio pesare. Ma mi sento invisibile. Come se la mia sofferenza non fosse reale.» 

Una pedana montascale fissa che risolverebbe il problema

La sua è una prigionia che non nasce solo dalla malattia, ma da barriere architettoniche e burocratiche che trasformano la disabilità in isolamento assoluto. 

«Dicono che dopo certe malattie bisogna muoversi, uscire, fare attività. Ma io non posso nemmeno decidere cosa cucinarmi. Non posso andare a un controllo, se non con un’ambulanza privata e con costi impossibili.» 

Silvia non cerca pietà. Cerca dignità. Chiede solo una cosa semplice, che dovrebbe essere un diritto: poter uscire di casa. Tornare ad avere una vita — anche piccola, anche diversa — ma una vita vera. 

La sua storia ci riguarda tutti. Perché racconta una realtà fatta di porte chiuse, gradini che diventano muri, dispositivi inaccessibili, diritti negati. 

Racconta cosa significa sopravvivere, ma sentirsi dimenticati dai vivi: “Oggi sono esattamente 210 giorni di prigionia forzata! Mi farebbe molto piacere riuscisse ad aiutarmi qualcuno”. 

Oggi Silvia ha trovato il coraggio di condividere il suo dolore. Lo fa con parole nude e forti, perché sa che il silenzio non salva nessuno. 

E noi, leggendo la sua storia, abbiamo il dovere di ascoltare. E, se possiamo, di aiutarla (Clicca qui)

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