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Ombre su Torino

L’inferno in testa. E una pistola in tasca. Cronaca di un omicidio senza movente

Un viaggio tra la parte oscura del tunnel e la luce. Con in mezzo due omicidi.

Nella mente malata di un uomo comune

Nella parte più oscura del tunnel.

Umberto Coppola ha 59 anni e la sua vita sembra rappresentare il paradigma perfetto di chi, apparentemente, non ha intenzione di lasciare ai posteri grandi segni del proprio passaggio sulla terra. È una persona comune che lavora, dà da mangiare alla famiglia e dall’assenza di particolari che preoccupino o destino l’interesse delle persone che lo circondano.


Siamo nel 1984 e l’uomo lavora da 26 anni come tramviere dell’ATM dove è stimatissimo dai colleghi che, nel giro di qualche anno, lo dovranno salutare perché prossimo alla pensione.

Abita alla Falchera, in via delle Betulle 5, con la moglie Immacolata e tre figli. Nel quartiere è conosciuto come un uomo mite, tranquillo, persino un po’ rigido. Un signore rispettoso, sempre elegante in camicia e cravatta e che costantemente davanti a sé l’onorabilità della sua persona, il suo lavoro e la sua famiglia.

Cattolico praticante, è apprezzato dal parroco di zona che lo definisce “sempre preoccupato che i ragazzi non sgarrino, severo, gran lavoratore, introverso, gentile ed educato, sempre a disposizione di tutti, anche solo per portare la spesa alla vecchia vicina di casa”.

Forse l’ingresso nel tunnel avviene il 31 luglio 1977.


Sono circa le 20 e un gruppo di 8 ragazzini di età compresa tra i 14 e i 18 anni parte dalla Falchera in direzione del centro di Torino. Si fermano in un ristorante di corso Regina Margherita e, dopo aver mangiato la pizza e consumato alcune birre, come quasi ogni sera, si dedicano alla loro attività preferita. Probabilmente non gli sembra niente di grave o sanno che, essendo quasi tutti minori, il rischio di conseguenze è minimo: rapinare qualche povero sprovveduto per strada è poco più di un gioco.


La banda, di norma, si accanisce su omosessuali e travestiti che, ai tempi, si possono incontrare facilmente nei pressi della piazza del municipio o ai Giardini Reali.
Anche in quell’occasione non è diverso dal solito: fermano due gay, li circondano e li obbligano a consegnargli anelli e catenine d’oro.


Inebriati dall’adrenalina, e visto che nel frattempo si erano fatte le due di notte, si recano in piazza Castello per trovare dei taxi con cui ritornare a casa. Ne fermano due e, in quello guidato da Primo Angelini, scacciano un passeggero che era appena salito, intimando all’autista di correre subito verso la Falchera.

Infastidito dalla scena a cui è stato costretto ad assistere, Angelini risponde che non ha intenzione di correre da nessuna parte e, di tutta risposta, riceve uno schiaffo da uno dei giovani a bordo. Questi, spaventato dalla possibile reazione dell’uomo, scende in fretta e si mette a correre, col conducente che lo insegue brandendo una catena antifurto.

Scappano tutti, ma il taxista riesce a raggiungere e colpire Arcangelo Frijia, quattordicenne, che, all’improvviso, si gira, tira fuori un coltello a serramanico e trafigge Angelini all’aorta, uccidendolo sul colpo.
Questa brutta storia finisce con l’arresto di tutta la banda, con la condanna a cinque anni dell’omicida e il “perdono giudiziale per immaturità” per il resto del gruppo. Di questo fa parte anche il figlio di Umberto Coppola, Alfredo, 15 anni appena.

La vicenda sembra aver colpito nel profondo il tramviere. La paura di sapere il suo ragazzo in pericolo o comunque che rischiasse conseguenze penali per le sue bravate ma, soprattutto, l’indiretto senso di colpa e quello di non aver educato a dovere il rampollo pare che siano rimaste macchie indelebili nel suo modo di essere.
Poi, però, iniziano ad accadere delle cose abbastanza inquietanti.

È difficile stabilire con precisione le date degli accadimenti ma questi si susseguono tutti tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984.

Un giorno Coppola sta camminando in un viale vicino alla propria abitazione quando si accorge di essere seguito da una grossa auto. A bordo un uomo di origine africana dal fisico imponente, vestito elegante, con gli occhiali scuri che lo fissa guidando letteralmente a passo d’uomo. La scena va avanti parecchi minuti. I due si scrutano l’un l’altro ma non si dicono nulla, non accade praticamente niente. L’uomo alla guida schiaccia l’acceleratore e se ne va.


Passa qualche giorno e nello stesso posto il dipendente ATM si vede venire incontro due loschi individui coi capelli lunghi, jeans e giacchette sportive. Anche questi sembrano avercela con lui ma stavolta sono a piedi, e soprattutto, armati. Hanno in mano dei pugnali e, quando se lo trovano a tiro, glieli lanciano contro, come se fossero dei giocolieri al circo. Coppola non viene attinto ma le lame si infilzano in degli alberi appena dietro di lui.
Se questo non fosse abbastanza, di notte, qualcuno gli danneggia con un martello l’auto e, non pago, gli taglia più volte le gomme.

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Umberto non lo sa, non lo può sapere ma, tolta la storia del figlio, tutte le altre non sono mai accadute se non nella sua fantasia. Nella parte più oscura del tunnel.

Il problema è che dietro la persecuzione che sente di subire ci sarebbe un mandante che è in carne ed ossa, vivo, reale: il suo collega Ciriaco Capone, da circa 30 anni manovratore di riserva.

1° febbraio 1984, ore 16.30.


Capone ha appena finito il turno al deposito dei tram di corso Tortona 57. Esce dall’edificio, gira a sinistra e va verso la sua Renault verde pallido. Sta per mettere la chiave nella serratura quando vede arrivare Coppola che lo saluta sorridendo. I due sono colleghi ma anche amici, si frequentano fuori dall’orario di lavoro e probabilmente, come accaduto tante altre volte, Capone crede che l’altro lo voglia invitare a bere qualcosa in un bar della zona.


Ma non è così.


Coppola tira fuori dal giaccone una Beretta 7.65 ed esplode due colpi al torace e al ventre del compagno che, seppur preso totalmente alla sprovvista, riesce a girarsi e a scappare verso il deposito. Non serve a niente: lo sparatore lo raggiunge e preme il grilletto altre tre volte, crivellandogli la schiena.


Nessuno assiste alla scena ma, dopo qualche minuto, una piccola folla si avvicina a Ciriaco Capone ma non c’è niente da fare. Muore così, a 52 anni, senza sapere perché.

L’assassino scappa a piedi ma non ha intenzione di darsi latitante. Si consegna dopo circa un’ora al nucleo operativo dei carabinieri in via Valfrè.

Entra e, in pochi secondi, riassume l’accaduto con agghiacciante freddezza: “Ho ucciso un collega che mi faceva i dispetti, mi perseguitava tagliandomi le gomme dell’auto e facendomi telefonate minatorie. Eravamo amici ma poi lui è cambiato. Ho commesso una follia, non capisco. Ho sopportato per dieci anni tutte le sue angherie. Tagliava le gomme della mia auto, mi derideva coi colleghi, aveva ingaggiato gente che mi seguiva e una volta anche due tizi che mi hanno tirato dietro dei coltelli. Era un inferno e mi sono ribellato solo quando ha iniziato a insultare mia moglie e mia figlia, dovevo intimargli di smetterla”. Poi conclude: “Mercoledì sono andato ad aspettarlo per intimargli di finirla di diffamare mia moglie e Amelia. Mi sono portato la pistola per impaurirlo. Gli ho chiesto del suo atteggiamento ma lui anziché negare o difendersi mi ha dato l'impressione di essere responsabile di quello che stava accadendo. Ho perso la testa, mi spiace ma dovevo intervenire”.

Le indagini, in questo caso, sono rapide e, quasi illogicamente, abbastanza semplici. Vengono sentiti a tappeto familiari e conoscenti sia della vittima che del carnefice e non viene trovato il benché minimo riscontro né alle accuse che Coppola faceva a Capone né alle minacce e ai danneggiamenti che il killer ha rappresentato come la causa del suo turbamento.


Non c’è nulla, è tutto nella fantasia malatissima di un uomo che, per altro, una volta messo in galera e rimasto dietro le sbarre un anno in attesa di giudizio, risulta tornato in una normale e terrificante normalità, come se nulla fosse accaduto.

Nell’ottobre 1985 viene stabilito che Umberto Coppola soffre di “delirio perseguitato – persecutore” e quindi assolutamente non in grado di intendere e di volere. Per questo motivo non viene processato ma viene condannato a cinque anni di manicomio criminale.

Paradossalmente, la luce alla fine del tunnel.

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