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Ombre su Torino

Dante Di Nanni, il partigiano che sfidò l’inferno

Aveva solo 19 anni quando sfidò i nazifascisti in un assedio epico a Torino. La sua morte, tra leggenda e verità, è diventata simbolo della Resistenza e memoria incancellabile di libertà

Dante Di Nanni, il partigiano che sfidò l’inferno

18 maggio 1944.
C’è un ragazzo di 19 anni che si trova in una casa al secondo piano di via San Bernardino 14, Borgo San Paolo. Lo ha portato qui un giovane poco più grande e così facendo gli ha salvato la vita. Il protagonista della nostra storia, infatti, è stato ferito durante un conflitto a fuoco, colpito per sette volte all’addome, alle gambe e alla testa, anche se solo di striscio.
I due sono partigiani, fanno parte dei Gruppi di Azione Patriottica, tra i protagonisti principali della resistenza tra le fila dei comunisti. Si trovano in quella abitazione perché è uno dei loro covi e ci si sono dovuti nascondere dopo un’azione che hanno condotto due giorni prima.

Nella notte tra il 16 e il 17 maggio hanno dato l’assalto, insieme a due altri sodali, a una stazione radio della RSI nella periferia nord di Torino. Il blitz è stato un successo (l’edificio è stato fatto saltare per aria col tritolo) ma in una sparatoria con i militi di guardia due gappisti sono rimasti feriti riuscendo a fuggire e gli altri due sono stati catturati.
Lasciato solo dal compagno (intento a organizzarne il trasporto a un vicino ospedale) il diciannovenne sente all’improvviso voci e rumori dalla strada che lo fanno sussultare: sono arrivati i fascisti e i tedeschi, lo stanno cercando.

Armato di un paio di mitra, di svariate bombe a mano e di esplosivo, il giovane non sembra intenzionato ad arrendersi facilmente. A farne le spese sono quattro nazifascisti che sono arrivati fino alla porta d’ingresso. Il partigiano la apre e butta una bomba a mano: due muoiono sul colpo, gli altri fuggono ma vengono presi alle spalle da una raffica di mitra.

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Da sotto, nel frattempo, iniziano a sparare contro il balcone del secondo piano e sono arrivati pure i rinforzi a bordo di una camionetta e di un carro armato. Il gappista resiste, uccide e ferisce una decina di aggressori, riesce addirittura a distruggere entrambi i mezzi a colpi di tritolo. Poi, però, finisce le pallottole. Si vede perduto ma non vuole farsi catturare vivo. Non vuole essere costretto a “cantarsi” i propri compagni sotto tortura.
Esce sul balcone, attende la sventagliata di mitra fatale a petto in fuori ma questa non arriva. Decide allora di scavalcare il parapetto, di alzare il pugno chiuso sopra la testa e di gettarsi nel vuoto al grido di “Viva l’Italia”.
Muore schiantandosi sull’asfalto, dopo un’azione eroica che gli varrà la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

O forse no.

Qualche decennio dopo, infatti, la sua storia viene ricostruita in maniera parzialmente diversa. Si scopre che la mattina che viene portato in quel covo lui e il suo commilitone credono che gli altri due siano stati uccisi nel conflitto a fuoco della notte precedente, anche se così non è. Sono stati arrestati e li stanno interrogando.

Questo fa sì che l’abitazione non venga sgomberata e che, dopo 24 ore di tortura (che pensavano fossero sufficienti agli altri per fuggire), i due partigiani catturati confessassero la posizione di quel rifugio. Arrivate le forze nazifasciste, la battaglia si svolge come ricostruito nell’immediatezza dei fatti ma a cambiare è il finale.

Il referto dell’autopsia, la testimonianza di un pompiere intervenuto e il verbale della Guardia Nazionale Repubblichina concordano: quel giovane è morto con un colpo in testa mentre si trovava nello scarico dei rifiuti della pattumiera condominiale. Ci si era nascosto in quanto ferito, a pezzi dopo due giorni di battaglia in condizioni estreme. Pare abbia chiesto di non sparare, di poter uscire a mani alzate ma anche qui le versioni differiscono: il padre del combattente e una testimone oculare parlano di un estremo suicidio con un colpo di pistola, i documenti ufficiali di un’esecuzione in piena regola di un “terrorista”.

Poco importa, in realtà, come sia andata veramente. Poco importa se la storia di questo ragazzo è stata mitizzata dai partigiani per farne un eroe, per innalzarlo a martire e a difensore strenuo della libertà. È stato giusto così. C’era bisogno, probabilmente, ai tempi, di un racconto quasi “agiografico” per rendere giustizia a lui come agli altri caduti per la democrazia. Ce n’è stato bisogno per ricordare chi stesse dalla parte giusta della storia e il finale del racconto, in nessun modo, ne sminuisce la figura.

Un giovane a cui dedicare una via proprio a San Paolo, murales in tutta la città, una targa di marmo nel luogo dove avvenne lo scontro a fuoco, strade in provincia di Torino, Emilia-Romagna e Lombardia. Libri, canzoni, film, documentari e anche il nome di una brigata Garibaldi e di una colonna delle BR.

Uno degli uomini simbolo di questa città: il suo nome, se ancora serve specificarlo, è Dante Di Nanni.

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