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24 Maggio 2025 - 11:47
C’è chi taglia l’erba con i trattorini, e chi la fa sparire a morsi. Mille morsi per volta. Da Priero ad Alba, passando per strade secondarie, fossi, bordi di fiume e campi lasciati all’abbandono: è il viaggio lento, paziente e cocciuto di mille pecore roaschine, razza autoctona piemontese in via d’estinzione, che quest’anno si prenderanno cura del verde urbano della capitale delle Langhe. Non con le pale meccaniche né con i diserbanti, ma con la loro fame instancabile, lanosa e sostenibile.
A guidarle, come ogni anno, c’è Bruno Martinengo, pastore da sempre, con il figlio Nicolò, la compagna Daniela Grosso e due fidati collaboratori della Società agricola La Baita di Mondovì. Un esercito silenzioso partito il 10 ottobre scorso da Priero, nel cuore del Cebano, per una transumanza dal sapore antico, che però oggi si riveste di modernità: quella di un’intesa tra pastori e amministrazioni comunali, che riscoprono il valore della pastorizia non solo come memoria ma come risorsa concreta per il territorio.
La chiamata è arrivata direttamente dal Comune di Alba: l’erba cresceva troppo, le macchine facevano fatica, il bilancio era stretto. Così, invece di cercare appalti e gare, l’amministrazione ha preso il telefono in mano e ha contattato i Martinengo: “Venite voi. E fate come solo voi sapete fare.”
Mercoledì 28 e giovedì 29 maggio, le mille pecore si fermeranno al Parco Tanaro, dove diventeranno, per due giorni, le protagoniste assolute di un verde urbano rimesso in ordine col metodo più naturale e ancestrale che esista: la pascolazione. Poi si sposteranno su un tratto della pista ciclabile lungo il fiume, in direzione Roddi, prima di rimettersi in cammino verso l’alta quota. Obiettivo: raggiungere l’alpeggio entro il 20 giugno, per salire finalmente in montagna e affrontare l’estate tra i pascoli d’altura.
Ma questa non è solo la storia di un gregge e di un accordo pratico tra Comune e allevatori. È anche, e soprattutto, la parabola di una razza che rischia l’oblio. La pecora roaschina, con il suo muso elegante e il vello adatto ai climi più duri, è una delle ultime testimoni della biodiversità pastorale delle valli piemontesi. Oggi sono meno di duemila in tutto. E ogni gregge che si muove è un atto di resistenza contro la logica dell’allevamento intensivo, un manifesto vivente di ruralità resistente.
Bruno Martinengo lo sa. E non a caso ha trasformato il viaggio delle sue pecore in una forma di agricoltura itinerante che si adatta ai bisogni dei terreni e alle stagioni. “I privati ci chiamano per ripulire prati e frutteti. Quest’anno è stato il Comune a cercarci. È un modo per far conoscere il nostro lavoro e per dare un senso alla transumanza anche nei mesi di bassa quota” racconta.
Nel frattempo, le pecore camminano. Non fanno rumore, ma lasciano segni. Tengono vivo un mestiere, custodiscono un pezzo di paesaggio, e ricordano che, anche sotto un cielo incerto, la bellezza può ancora passare per un’orma zoccoluta su un prato bagnato di maggio. Basta saperla riconoscere.
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