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Agricoltura
23 Maggio 2025 - 11:25
un cinghiale
Non è più un’emergenza silenziosa. In Piemonte, la presenza sempre più massiccia di cinghiali e altre specie selvatiche sta diventando un problema strutturale, capace di mettere in ginocchio l’agricoltura, colpire gli allevamenti, alterare gli equilibri ambientali e minacciare direttamente la sicurezza pubblica. Una situazione fuori controllo, acuita dalla diffusione della peste suina africana e aggravata da un impianto legislativo ormai superato. Ma ad alzare la voce è una delle poche figure istituzionali che ha deciso di rompere il silenzio: Monica Canalis, consigliera regionale, torna a denunciare l’immobilismo della giunta Cirio e propone una strategia innovativa basata sulla prevenzione, non sul semplice risarcimento.
La critica è diretta e senza filtri. “Il modello attuale non funziona. I risarcimenti, oltre a essere lenti e burocratici, non prevengono i danni. Gli agricoltori sono stanchi, molti hanno smesso di fare domanda, e intere aree coltivabili vengono abbandonate”. Un danno economico, ma anche sociale. Campi devastati, recinzioni abbattute, animali sbranati. Gli allevatori piemontesi lo sanno bene: per molti, coltivare o pascolare in zone di presenza stabile di fauna selvatica significa lavorare in perdita. E intanto il numero di esemplari continua a salire.
Allarme agricoltura piemontese e fauna selvatica
La proposta di Canalis è netta: riformare la legge 157 del 1992, quella che regola caccia e gestione della fauna in Italia. “È una legge vecchia di trent’anni, nata in un’altra epoca, con altri equilibri naturali e sociali. Non possiamo più permetterci una gestione passiva”, afferma. In Toscana, alcune misure innovative sono già realtà: l’incremento degli abbattimenti selettivi, l’uso di trappole, la collaborazione tra agricoltori e enti di gestione venatoria. Il Piemonte, invece, resta indietro. E i numeri parlano chiaro: gli abbattimenti sono ancora lontani dall’obiettivo dei 50mila esemplari, considerato il minimo per contenere efficacemente la specie.
Ma non è tutto. Canalis invoca una riforma radicale degli ATC (Ambiti Territoriali di Caccia) e dei Comprensori Alpini, accusati di operare con criteri troppo rigidi e poco efficaci. Chiede più libertà nella sperimentazione di gabbie-trappola, recinti di cattura, e incentivi per i metodi di prevenzione diretta sul territorio. “Serve un piano regionale integrato, che tenga conto della biodiversità ma anche delle esigenze delle comunità agricole. E serve adesso”.
A riconoscere l’urgenza di un intervento è anche l’assessore regionale Marco Bongianni, che ammette: “La legge è obsoleta, dobbiamo cambiare passo”. Ma tra la consapevolezza e l’azione concreta si apre un vuoto temporale che il territorio piemontese non può più permettersi. Ogni giorno di ritardo è un danno economico, un rischio sanitario, una minaccia alla sicurezza. E soprattutto, è un segnale di abbandono per chi ancora lavora le campagne.
In un’epoca in cui i cambiamenti climatici alterano già equilibri delicatissimi, la pressione della fauna selvatica si somma a tutto il resto. La gestione non può più essere lasciata a scelte tampone o a logiche emergenziali. Il Piemonte può diventare un laboratorio di convivenza intelligente tra natura e attività umane, ma solo se avrà il coraggio di guardare oltre l’inerzia istituzionale.
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