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Volpiano, alla Fresia Alluminio il “Manifesto del Buon Lavoro”

Cristina Fresia apre le porte dell’azienda. Francesco Seghezzi scuote le coscienze. Il lavoro torna ad essere ciò che era: un’occasione per diventare uomini

Volpiano, in Fresia Alluminio va in scena il “Manifesto del Buon Lavoro”: quando il desiderio umano entra in fabbrica

Cristina Fresia

Non era una conferenza. Non era un semplice evento aziendale. Non era, soprattutto, una passerella di buoni propositi. Mercoledì scorso, le porte della Fresia Alluminio si sono spalancate non solo per accogliere il pubblico, ma per mettere in scena un’idea nuova – e antica – di lavoro: quella di un’attività capace di dare senso alla vita, di generare comunità, di diventare risposta concreta al desiderio umano.

Il titolo dell’incontro promosso dalla Compagnia delle Opere (Cdo) non poteva essere più esplicito: “Un lavoro all’altezza del desiderio umano”. Sì, proprio quel desiderio spesso messo in secondo piano, ridotto a margine, smarrito nel rumore della produttività. Ma ieri sera, in uno stabilimento moderno che profuma di futuro, è tornato al centro del discorso pubblico.

A fare gli onori di casa è stata Cristina Fresia - amministratore delegato dell’azienda insieme al fratello Valentino - e spirito guida di una realtà che crede nella bellezza dell’innovazione, ma solo se questa cammina insieme alla persona. Prima i saluti, poi la visita alla fabbrica: macchinari di precisione, profili in alluminio, dettagli che raccontano una storia imprenditoriale di successo, fatta di efficienza energetica e cura ambientale. Ma anche e soprattutto di rispetto per chi lavora, per chi crea, per chi ogni giorno dà forma al metallo e al proprio destino.

Cristina e Valentino Fresia

Cristina e Valentino Fresia

E poi, nel cuore dell’azienda trasformato in agorà, il momento clou: la presentazione ufficiale del “Manifesto del Buon Lavoro”, già discusso in Senato lo scorso novembre, ora finalmente condiviso con chi ogni giorno vive le trasformazioni del mercato del lavoro sulla propria pelle.

Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione ADAPT, ha preso la parola con la forza di chi non si limita a interpretare il presente, ma tenta di cambiarlo. “Lavoro non è solo contratto, non è solo produttività, non è neanche solo benessere. Lavoro è l’occasione più grande che abbiamo per capire chi siamo”, ha affermato con decisione. Davanti a un pubblico di imprenditori, professionisti, studenti e lavoratori, Seghezzi ha scardinato luoghi comuni, invitando a non cedere al cinismo né alla rassegnazione.

Ha parlato di giovani, di intelligenza artificiale, di flessibilità che rischia di diventare precarietà se non è guidata da una visione. Ha parlato, soprattutto, di umanità. Un termine che – in un’epoca di algoritmi e smartworking – può sembrare fuori moda, ma che proprio per questo è necessario rilanciare.

A moderare l’incontro è stato Felice Vai, presidente di Cdo Piemonte, che ha saputo legare i diversi interventi con una domanda guida tanto semplice quanto potente: che cosa desidera davvero un uomo quando lavora?

La risposta non è univoca, ma le traiettorie aperte dalla serata sono chiare: non c’è sviluppo sostenibile senza dignità, non c’è impresa moderna senza comunità, non c’è tecnologia che tenga se non serve la persona.

L’incontro – realizzato con il contributo della Camera di commercio di Torino nell’ambito del progetto C.L.A.S.S. – si è concluso con un aperitivo informale, che ha avuto il sapore di una piccola festa, ma anche di un impegno condiviso. I volti dei presenti, tra un calice di vino e uno scambio di contatti, tradivano l’effetto più evidente della serata: la voglia di tornare a casa con uno sguardo diverso sul proprio lavoro. E, forse, anche su sé stessi.

Perché – come ha ricordato un giovane partecipante durante il dibattito – “il lavoro non è tutto, ma senza un lavoro che mi somiglia, faccio fatica a riconoscermi”.

Il Manifesto del Buon Lavoro

C’è ancora spazio per parlare di “buon lavoro” in un’Italia che si divide tra flessibilità estrema, precarietà dilagante e quiet quitting? Secondo la Compagnia delle Opere (CdO), sì. E non si tratta solo di slogan, ma di un vero e proprio Manifesto del Buon Lavoro, già approdato nelle stanze del Senato, dove lo scorso novembre è stato presentato ufficialmente nella Sala Caduti di Nassirya con il sostegno della vicepresidente Licia Ronzulli.

Accanto a lei, nomi di peso delle istituzioni e del mondo produttivo: la viceministra del Lavoro Maria Teresa Bellucci, il segretario generale della CISL Luigi Sbarra, l’imprenditore Marco Bernardi (Illumia), oltre a rappresentanti delle realtà associative e aziendali italiane. Al centro dell’attenzione: il malessere diffuso nei luoghi di lavoro, i sintomi del burnout, le dimissioni volontarie in crescita e un mondo professionale che sembra aver perso, in molti casi, il suo senso più profondo.

C’è un disagio che non possiamo ignorare”, spiegano i promotori del Manifesto. E lo mettono nero su bianco: il lavoro, se non restituisce dignità, non è solo inefficace — è disumanizzante. Da qui nasce un documento che si articola in cinque snodi fondamentali, con l’obiettivo di ridare valore all’esperienza professionale, non solo in termini economici ma soprattutto umani e relazionali.

Tra i temi trattati:

  • La diagnosi del presente, tra sfiducia, alienazione e demotivazione diffusa;

  • Le cause del cattivo lavoro, tra mancanza di riconoscimento, scarsa formazione e relazioni tossiche;

  • La centralità della persona, che va riconosciuta come soggetto attivo e creativo, non come semplice ingranaggio;

  • La cultura del buon lavoro, da costruire a partire da una visione condivisa di senso e responsabilità;

  • Dieci azioni concrete, per mettere in pratica il cambiamento.

Le proposte sono tutt’altro che astratte. Si va dalla formazione permanente incentivata (anche con sgravi fiscali) alla valorizzazione del talento individuale, con premi per chi propone idee innovative all’interno dell’azienda. Si parla di welfare aziendale, di percorsi di crescita condivisi, ma anche di leadership partecipativa, fondata sull’ascolto.

Il messaggio è chiaro: non basta creare posti di lavoro. Bisogna creare buon lavoro. E su questo la viceministra Bellucci ha espresso pieno sostegno: “Serve un nuovo patto sociale, che ci impegni tutti: politica, imprese, sindacati. Solo così possiamo governare le transizioni senza lasciare indietro nessuno”.

L’iniziativa non si è fermata a Roma. Il Manifesto è in tour in varie regioni italiane: da Milano a Palermo, da Bologna a Bari. 

Insomma, non si tratta di un manifesto ideologico, ma di una chiamata all’azione per un Paese che vuole tornare a credere che lavorare — davvero — possa far bene. A sé stessi, e agli altri.

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