Un uomo di 42 anni, di nazionalità marocchina, si è tolto la vita nella sua cella del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Nelle stesse ore, un altro detenuto è morto a Teramo per un “malore improvviso”, senza che fossero note patologie pregresse. Due episodi che, presi singolarmente, rischiano di affondare nel consueto silenzio istituzionale. Ma che insieme raccontano una crisi profonda e strutturale del sistema penitenziario italiano, fatta di sovraffollamento, abbandono, lentezza della giustizia e assenza di cure adeguate.
A denunciarlo con parole durissime è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (S.PP.), che ha diffuso una nota amara e dettagliata: «Il detenuto suicida a Torino era uno dei 9.475 reclusi in attesa di giudizio. A questi si aggiungono 3.225 appellanti, 1.881 ricorrenti e 5.833 con condanne non definitive. Un quadro che certifica una giustizia lentissima, mentre le celle scoppiano. E si continua a morire anche per 'altre cause', formula burocratica che serve solo a mascherare la realtà».
Dal 1° gennaio al 20 maggio 2025, secondo i dati raccolti dal sindacato, sono già 32 i suicidi registrati nelle carceri italiane. Ma il numero reale potrebbe essere più alto, diluito nelle 73 morti classificate come “altre cause”, dietro cui — afferma Di Giacomo — si celano spesso suicidi non riconosciuti, carenze assistenziali, episodi di malasanità o semplicemente abbandono istituzionale.

La morte a Teramo è solo l’ultima di una serie drammatica: quattro vittime in meno di due mesi. E in nessuno di questi casi sono state fornite spiegazioni chiare, tempestive e pubbliche. «È indegno non conoscere in tempi ragionevoli le cause della morte di un detenuto, è un’offesa alla giustizia, ai familiari, alla dignità umana», afferma il segretario del S.PP., sottolineando che le categorie più colpite sono i detenuti psichiatrici, i tossicodipendenti e gli extracomunitari, con un’età media dei suicidi sempre più bassa: 35 anni.
Mentre la crisi esplode, denuncia Di Giacomo, l’amministrazione penitenziaria pensa alle “stanze per l’affettività”, ignorando la questione prioritaria: il diritto alla vita. Il DAP, privo da mesi di una guida stabile, non riesce a garantire risposte concrete, mentre gli agenti di polizia penitenziaria — già sottorganico — continuano a salvare vite nel silenzio, con almeno 20 interventi riusciti da inizio anno.
"Lo Stato ha perso il controllo, e l’emergenza ha superato il punto di non ritorno", avverte Di Giacomo. "Servono risorse mirate, più collaborazione tra sanità e carcere, presidi psicologici, medici e strutture alternative per chi è fragile. Senza un cambio radicale, continueremo a contare morti, una settimana dopo l’altra. E ogni volta sarà troppo tardi."