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Dal carcere di Ivrea alla libertà: la storia vera di Silvio Geuna

La Resistenza raccontata da chi l’ha vissuta:

Dal carcere di Ivrea alla libertà: la storia vera di Silvio Geuna

Dal carcere di Ivrea alla libertà: la storia vera di Silvio Geuna

Grazie all’iniziativa del Consiglio di Biblioteca e dell’assessorato alla Cultura, Castellamonte ha avuto il privilegio di essere, venerdì 9 maggio, il primo comune in cui è stata presentata la riedizione del libro <Le rosse torri di Ivrea – le “mie prigioni” di un combattente della Resistenza>, uscito nel 1977 e scritto da Silvio Geuna. Esponente di rilievo del partigianato piemontese, Geuna fu poi membro della Costituente per la Democrazia Cristiana, deputato e consigliere comunale a Torino per vent’anni.

Il volume è stato ristampato dalle edizioni “Atene del Canavese” con prefazione di Andrea Parodi e l’editore Giampaolo Verga ha ammesso di avere avuto qualche perplessità: “Mi sono chiesto perché, a distanza di 80 anni dai fatti raccontati, ci dovessimo ancora interessare a quelle vicende. Quando, quindici anni fa, è nata la nostra casa editrice, avevamo l’obiettivo di parlare del territorio: non mi sarei aspettato di proporre al pubblico canavesano testi di storia con la S maiuscola. Leggendo la versione originale mi sono però reso conto che tante cose non erano affatto cambiate, che i valori portati avanti dal movimento partigiano restavano attuali e che dai suoi protagonisti c’era molto da imparare. È importante per i giovani, che non possono contare sulle testimonianze dirette dei genitori e spesso nemmeno più dei nonni, prendere consapevolezza di cos’accadde in quel periodo”.

La presentazione del libro di Silvio Geuna a Castellamonte

Ad uno dei nipoti di Geuna, Massimo Mariotti (altri suoi familiari erano seduti fra il pubblico) è toccato il compito di tracciarne il ritratto: quello pubblico e quello privato. Nato nel 1909, al momento dell’Armistizio era tenente di complemento degli Alpini. Entrò subito nella Resistenza e, nella primavera successiva, fu uno dei pochi componenti del Comitato Militare del C.L.N. piemontese che sfuggirono alla condanna a morte emessa dal Tribunale Speciale Fascista durante il <Processo di Torino> del 2 e 3 aprile 1944. A causa di una spiata, il 31 marzo l’intero comitato era stato catturato all’interno del Duomo – dov’era in programma una riunione clandestina – o sul sagrato.

Solo Edgardo Sogno, abituato ad arrivare in ritardo, era sfuggito alla retata. La maggior parte degli arrestati venne condannata alla pena capitale e la fucilazione avvenne il 5 aprile al poligono del Martinetto, diventato da allora un simbolo della lotta partigiana. Fra loro c’era il generale Giuseppe Perotti, coordinatore del Comitato. Geuna, che si era visto comminare l’ergastolo, chiese inutilmente di prendere il suo posto, visto che era scapolo mentre il generale aveva tre figli.

Durante la successiva detenzione nel carcere di Ivrea tenne un diario, dal quale oltre trent’anni più tardi nacque il libro. “Si risolse a scriverlo – ha spiegato Mariotti – dopo la conclusione della sua carriera politica, quando non avrebbe più avuto motivo di autocelebrarsi. Forse influì anche la pubblicazione, pochi anni prima, di <Fiori rossi al Martinetto>”. In effetti il libro di Valdo Fusi, uscito nel ’73, aveva narrato in maniera estremamente efficace, con grande semplicità ed ironia e senza un briciolo di retorica, il movimento di Resistenza osservato da un punto di vista particolare: quello di chi non combatteva in montagna ma lavorava per i combattenti a Torino, in mezzo al nemico. Anche il tragico epilogo di quel primo Comitato Militare era stato descritto con il medesimo stile e proprio la mancanza di enfasi aveva consentito di mettere nel giusto risalto il coraggio ed il valore dei condannati. Anche il libro di Geuna, come quello di Fusi, venne pubblicato dall’editrice Mursia.

“Mio zio – ha spiegato Mariotti – che aveva ricevuto la Medaglia d’Argento al Valor Militare e due Croci di Guerra al Merito Partigiano, era un fervente cattolico ed era anche un monarchico: mi corre l’obbligo di dirlo. Era però soprattutto un <difensore della Libertà>, che rispettava le idee di tutti. Diceva sempre: <La tua libertà sta in quella degli altri>. Faceva parte di un mondo che appare molto lontano da quello della politica di oggi, che vive di isterismi e di contrapposizioni aspre e dure oltre il ragionevole. Nell’ultima parte della sua vita, dai 70 anni agli 85, insegnò religione in un liceo ed era apprezzato dagli studenti”.

Ha quindi proseguito: “Oltre che un partigiano, era un alpino, orgoglioso di esserlo: adorava la montagna ed a 41 anni scalò il Cervino ma nella quotidianità teneva molto all’eleganza”. Nella vita privata e familiare “era un uomo generoso ed uno zio affettuoso. Non essendo sposato e non avendo figli, la sua famiglia eravamo noi: insieme trascorrevamo i momenti di festa, le vacanze estive e quelle invernali. A me e ai miei fratelli ha insegnato tutto: ad andare in montagna, a giocare a scacchi, a guidare, ad andare a cavallo. Ci faceva anche fumare la pipa… riempita di camomilla!”.

Ha concluso confessando: “Mi ha fatto piacere parlare di lui e, rileggendo il suo libro, mi sono reso conto che quando venne pubblicato la prima volta, benché avessi 25 anni e dell’esperienza partigiana avessi sempre sentito raccontare, benché avessi respirato quell’aria e conosciuto quel mondo da vicino, non avevo piena consapevolezza dell’importanza e del significato delle vicende che egli aveva vissuto”.

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