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25 aprile "Lacerante": sindaci in fuga e memoria strappata

La cerimonia si trasforma in uno scontro amaro. I sindaci abbandonano in silenzio, Beiletti denuncia: "La Resistenza soffocata da chi decide la scaletta a proprio piacimento".

25 aprile Lacerante: sindaci in fuga e memoria strappata

E vabbè. È andata così.
A Lace i sindaci dell’eporediese si sono tolti la fascia tricolore e sono andati via. In silenzio. Con passi pesanti. Lasciando dietro di sé un vuoto improvviso, uno stordimento collettivo che si è steso come una coperta gelida su chi era lì, incredulo, a guardare.

Una scena forte, lacerante, eppure – chi conosce questa storia lo sa – non una sorpresa. Perché da queste parti, ormai, il 25 aprile non è più solo memoria. È un campo di battaglia. Un ring senza esclusione di colpi tra due modi inconciliabili di onorare la Resistenza e l’anniversario della liberazione: da una parte chi vorrebbe cantare ancora le canzoni dei partigiani, chi si commuove davanti al Coro Bajolese, peraltro assente dal 2020, chi crede che il silenzio e il raccoglimento siano l’unico vero tributo a chi ha dato la vita; dall’altra chi porta sulla piazza le lotte del presente, chi trasforma la memoria in attualità, chi non riesce più a separare il passato dal bisogno di cambiare il mondo di oggi.

Ma c’è dell’altro. Dietro alla fuga di sindaci, dietro a quegli sguardi bassi e imbarazzati, si nasconde una verità ancora più dura. Più profonda. Una verità che brucia e avvelena: l’Anpi di Ivrea da tempo non conta più nulla nella costruzione della cerimonia. Come il due di picche in una mano già persa. Tutto è deciso altrove, imposto altrove. A comandare è l'Anpi Valle Elvo e Serra, che stila programmi, assegna oratori, riscrive scalette, lasciando agli altri solo l'illusione di partecipare. 

Il presidente dell’Anpi di Ivrea Mario Beiletti lo dice con una voce spezzata dalla rabbia e dalla delusione, lo dice senza giri di parole.

"Questa festa la considerano loro. Noi siamo comparse. Ci comunicano gli oratori all'ultimo momento, e tutto è già deciso. Vorremmo una cerimonia sobria, pulita, rispettosa di chi è morto per la libertà. Invece oggi è una vetrina su temi che, per quanto nobili, non c'entrano nulla con quello che stiamo commemorando...".

Il caos, quest'anno, è esploso come una bomba a orologeria già innescata. Beiletti aveva tentato il tutto per tutto, aveva messo insieme un primo programma, poi un secondo con quattro sindaci pronti a parlare: Ellade Peller di Nomaglio, Luigi Sergio Ricca di Bollengo, Matteo Chiantore di Ivrea e Sonia Cambursano di Strambino.

Sembrava tutto a posto, tutto incastrato. Ma poi, all'ultimo, l'Anpi Valle Elvo ha cambiato ancora la scaletta, infilando gli interventi del Comitato Palestina Libera e del Coordinamento Biellese Antifascista, prima e dopo i sindaci.

A quel punto la frattura si è aperta in modo definitivo. Uno dopo l'altro, i sindaci si sono sfilati, lasciando Beiletti con una locandina strappata tra le mani e l'urgenza di improvvisare una terza versione della giornata, con Federico Bellono, segretario generale della Cgil di Torino come ospite.

“Avevamo concordato tutto. Poi loro hanno stravolto tutto, sapendo benissimo di metterci in difficoltà. E i sindaci sono arrivati a Lace già pronti ad andarsene. Forse hanno sbagliato. Sarebbe bastava un comunicato per  spiegare ai cittadini il perché.  Hanno preferito il silenzio, l’uscita di scena senza parole...”.

E così, anche le locandine, nate una sopra l'altra, sono diventate il simbolo di una cerimonia strappata.

Una corsa disperata dietro a decisioni prese altrove, senza confronto, senza rispetto.

"Un tempo il cuore pulsante della giornata era il Coro Bajolese -  soffre ma non in silenzio Beiletti - Questo giorno, il giorno dei morti per la libertà, è stato soffocato da altro...".

Ma non è solo una questione di forma. È qualcosa che si è rotto dentro, anni fa, e che non si è più ricomposto.

Beiletti racconta che l'Anpi Valle Elvo e Serra non fa più parte dell'Anpi provinciale. La rottura risale a tempi lontani, a quando il gruppo guidato dai fratelli Favario ha preso il comando, portando con sé una nuova visione, radicale e divisiva: No Vax, No Tav, in aperto dissenso con la linea nazionale.

Memorabile quell'episodio del 2017, quando fu proiettato un film antisionista e antisemita, scatenando la protesta furiosa della Comunità Ebraica.

L'Anpi nazionale convocò i Favario a Roma. Lì, davanti al presidente Carlo Smuraglia, si rifiutarono di riconoscere l'errore. Furono sospesi.

E ancora, durante il congresso ai tempi del Covid, si presentarono senza mascherina, rifiutando di riconoscere persino l’esito delle votazioni.

Da allora, il 25 aprile a Lace non è più una celebrazione condivisa. È diventato uno scontro.

"Prima che arrivassero loro era diverso. Un anno decidevamo noi gli oratori, un anno loro. Era un equilibrio fragile, ma funzionava. Poi è cambiato tutto. Il peccato originale forse è stato mio: quando invitai Pino Masciari, aprendo la cerimonia anche alla lotta contro la mafia. Da quel momento è stata una deriva continua. O ci sono tutte le bandiere, o non va bene. Ma alla fine, di tutte le battaglie, qui rimangono solo le bandiere di Rifondazione Comunista...".

E in mezzo a questi strappi, a queste lacerazioni che ogni anno diventano più profonde, Beiletti non dimentica una ferita ancora più antica: quell’area monumentale è stata costruita anche grazie ai Comuni canavesani.

"I morti eporediesi li ho ricordati io, nel mio intervento. Ma oggi tutto questo sembra non contare più nulla. Passa tutto in secondo piano. Come se la storia, quella vera, non valesse più niente...".

E adesso? Cosa succederà l’anno prossimo?
Beiletti aveva provato a tenderla, una mano. A proporre un compromesso: una cerimonia istituzionale al mattino, gli incontri tematici al pomeriggio. Ma anche questa idea è stata respinta, come una porta sbattuta in faccia.

"Non vogliono sentire ragioni. Sono impermeabili a qualsiasi proposta. Però sia chiaro: noi a Lace vogliamo continuare ad andare. Perché il 25 aprile è troppo importante per lasciarlo a chi vuole riscriverlo. Noi non ci arrenderemo. Ne parleremo. Torneremo. E continueremo a lottare, per il vero senso della memoria...".

Perché la memoria, quella vera, non si usa come un’arma. Non si brandisce come una bandiera vuota.
La memoria vera è un sussurro, è un canto spezzato, è il nome di chi ha dato la vita. E nessuno dovrebbe mai permettersi di dimenticarlo.

Mario Beiletti

Lace

I sindaci che se ne vanno e la memoria che cambia

Si sono tolti la fascia tricolore. Se ne sono andati, a testa bassa, come chi si sente tradito. Come chi pensa che il 25 aprile debba rimanere esattamente quello che era settant’anni fa, immobile, incorniciato.
Ma il mondo non è immobile. E la memoria, se vuole sopravvivere, deve saper respirare il presente.

I sindaci dell'eporediese che hanno lasciato Lace in silenzio hanno scelto la via più semplice: quella di chi si tira fuori, di chi si rifiuta di sporcarsi le mani, di chi pensa che onorare la Resistenza significhi solo deporre una corona e recitare i soliti discorsi.
Ma Resistenza non è mai stata solo memoria. È stata urlo, disobbedienza, lotta.
È stata gente che ha messo in discussione l’ordine delle cose. Esattamente come oggi, sotto quelle stesse bandiere che tanto danno fastidio.

Parlare di Palestina, di antifascismo contemporaneo, di nuovi diritti da conquistare, non tradisce il senso del 25 aprile.
Lo rinnova. Lo mantiene vivo. Gli impedisce di diventare un museo polveroso.

Certo, serve rispetto. Serve misura. Non si può cancellare la storia con l’urgenza dell’oggi. Ma nemmeno si può congelare il 25 aprile in una liturgia rituale, buona solo per rassicurare le coscienze.

I sindaci avrebbero potuto restare. Avrebbero potuto ascoltare. Avrebbero potuto parlare, spiegare, contestare, dire la loro.
Invece hanno scelto il silenzio. Il passo pesante. La ritirata.
Come se la memoria fosse una proprietà privata, come se potesse sopravvivere chiudendo gli occhi davanti a chi oggi chiede ancora libertà.

Il 25 aprile non è di chi se ne va. È di chi resta. È di chi continua a credere che la memoria non sia un pezzo da esposizione, ma un seme da piantare ogni giorno, anche nei terreni più difficili.

Perché la memoria vera, quella che non invecchia, ha il coraggio di cambiare insieme al mondo che la circonda.
E non ha paura di sporcarsi le mani.

comunisti

Lace, dove la memoria cammina sulla neve

Arrivare a Lace è ancora oggi un piccolo viaggio nella Storia. Si lascia la pianura alle spalle, si risale piano tra boschi fitti e sentieri che sembrano non portare da nessuna parte. Solo alberi, vento, silenzio.
Poi, all’improvviso, la radura. La cascina. Le pietre annerite. La memoria.

Lace non è un posto come gli altri. Non lo è mai stato. Durante la guerra era invisibile, nascosto tra le pieghe della Serra. Un rifugio naturale per chi non aveva più patria né pace. Per chi aveva deciso di dire no.

Tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, qui si radunano i primi gruppi partigiani. Disertori, renitenti alla leva, soldati sbandati, contadini, operai: uomini e donne senza più divisa, ma con un solo ideale: la libertà.

La montagna li proteggeva. O almeno così sembrava. La neve, il gelo, le strade impraticabili erano la loro fortezza.
Ma la guerra sa essere spietata. E la notte tra il 29 e il 30 gennaio 1945, Lace fu tradita.

I nazisti sapevano. Una delazione aveva rotto il cerchio di protezione. Con gli sci ai piedi, reparti tedeschi e mongoli risalirono nella notte von fucili e lanciafiamme.

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la rivolta

Nella cascina di Lace si consumò una piccola Apocalisse. Aldo Gariazzo, nome di battaglia Dante, e Pietro Crotta, Abbondanza, morirono fra le fiamme, senza nemmeno il tempo di imbracciare un’arma. Altri dodici partigiani furono catturati. Tra loro c’erano nomi che sarebbero diventati simbolo: Walter Fillak, ventidue anni appena, e Ugo Macchieraldo.
La speranza di uno scambio di prigionieri si dissolse in fretta. Furono fucilati nelle settimane successive, a Ivrea, Cuorgnè, Alpignano.

Ma Lace non si arrese. Non si arrese allora, sotto le fiamme. Non si è arresa oggi, sotto le polemiche.

Ogni 25 aprile, centinaia di persone si danno appuntamento qui. Non c’è palco, non c’è cerimoniale che tenga.
Si cammina tra il fango, si ascolta, si discute. Si respira Storia, vera.

La cascina di Lace è diventata un’area monumentale. Ma chi pensa di trovare un museo freddo sbaglia di grosso. Lace vive. E chi arriva, la sente addosso.

È una memoria ruvida, a volte scomoda, mai addomesticata. Negli ultimi anni non sono mancate le polemiche: interventi giudicati troppo politici, assenze come quella della Comunità Ebraica di Ivrea, contrasti su chi deve parlare e su cosa si può dire. Ma questa è la forza – e la difficoltà – di Lace.

Perché la Resistenza, quella vera, non fu neutrale. Non fu comoda. Fu una scelta di parte, una rottura.
Fu il coraggio di cambiare il mondo, non di conservarlo. 
Chi oggi sale fino a Lace sa che qui non si celebra un mito immobile. Qui si tiene accesa una fiamma. Una fiamma che brucia ancora.

E mentre il vento soffia tra le foglie della Serra, mentre le bandiere si agitano nel cielo grigio di primavera, si capisce perché questo posto sia diverso. Perché Lace non è un luogo da visitare. È un luogo da attraversare.

E quando si cammina tra quei prati, tra quelle pietre, si sente ancora qualcosa. Una promessa. Una voce antica. Una voce che dice: "La libertà non si eredita. Si conquista. Ogni giorno."

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