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18 Aprile 2025 - 15:10
Medici e soldi....
Gentile Direttore,
le parole non ci spaventano. Perfino le sue, quando decidono di varcare il limite della provocazione invece di coltivare il rigore dell’argomentazione. Il suo è un editoriale che fa leva sull’indignazione per evitare l’analisi.
La ringraziamo quindi per l’opportunità della sua ulteriore risposta – sprezzante, ironica, per nulla “rispettosa” come il saluto finale vorrebbe far credere – e non intendiamo indietreggiare perché come sindacato crediamo al confronto.Ma se confronto deve essere, che sia almeno onesto.
E a differenza della sua, la nostra non è una posizione sulla spinta dell’indignazione: è il frutto di anni di contrattazione, ascolto, tentativi di salvare ciò che si può salvare.
I PRECEDENTI
La sua controreplica ci offre uno spunto interessante: l’idea che non basti la legge a legittimare un sistema, ma serva anche la decenza. Bene. Iniziamo proprio da questo sostantivo. Perché se c’è qualcosa che offende la decenza della nostra categoria, è la riduzione dell’intera questione ALPI a un teatrino fatto di interessi personali e mani che s’insinuano nei portafogli dei cittadini, che cancella dalla lavagna decenni di battaglie sindacali, carichi di lavoro insopportabili, turni di guardia, notti in reparto, assunzioni e stabilizzazioni che non arrivano mai.
Non accettiamo questa rappresentazione.
Non per difendere “una pacchia”, come lei la chiama con disinvoltura, ma per difendere la dignità del lavoro medico dentro il Servizio Sanitario Nazionale. Quello vero. Quello che non si vede dai comunicati né dalle scrivanie delle redazioni.
La realtà è che l’ALPI allargata per i nostri colleghi piemontesi non è un privilegio, ma un rimedio. Che lei lo liquidi come “pacchia” rivela solo un fastidio ideologico, non una posizione informata.
È un provvedimento messo da chi lavora nel pubblico per continuare a garantire presenza, qualità, e un minimo di compenso in un sistema sempre più impoverito da anni di scelte politiche miopi.
Il sistema “malato” che lei descrive e subisce come cittadino non è stato creato dai medici: lo subiscono anche loro ogni giorno, mentre cercano di curare in carenza cronica di personale, strutture, risorse.
Sì, l’ALPI è legale. Ma non basta. Serve anche decenza?
Perfettamente d’accordo.
E le chiediamo: dov’era la decenza dello Stato quando ha preteso che i medici garantissero assistenza h24 con organici dimezzati, quando ha permesso il blocco del turnover per dieci anni, quando ha ignorato la fuga di migliaia di professionisti verso il privato?
Dov’era la decenza quando si è consentito agli ospedali di ignorare l’obbligo di predisporre spazi adeguati alla libera professione, costringendo i medici a “spostarsi” in studi esterni autorizzati dallo stesso sistema pubblico?
È decente lasciare ospedali senza personale, con turni da 12 ore?
È decente obbligare i medici a coprire carenze strutturali sistemiche, per poi colpevolizzarli se cercano forme legittime di valorizzazione?
È decente fare il processo a chi cura, mentre chi ha tagliato, disinvestito, ignorato per anni continua a non assumersi responsabilità?
Lei dice che non è un attacco “a chi lavora con serietà”?
Eppure dedica la sua intera replica a insinuare che i camici bianchi lavorino col cronometro in una mano e il POS nell’altra.
Cos’è, allora, se non un attacco? Dica allora pure la verità fino in fondo.
Perché dietro al suo tono indignato, c’è un sottotesto costante: i medici sono il problema, e lo sono tutti, nessuno escluso.
Perché “magicamente” compare un posto per chi paga? Perché la sanità pubblica è stata indebolita da chi ha tagliato, non da chi ci lavora.
Le liste d’attesa esplodono per carenza di personale e risorse, non per colpa dell’ALPI.
Ci chiede perché i reparti si svuotano dopo le 14?
Glielo ripetiamo noi: perché a breve non ci saranno più medici disposti a lavorare in queste condizioni.
Non sono andati né in parlamento per guadagnare vitalizi né scappati a studio a fare visite a 200 euro.
Sono fuggiti nel privato o all’estero perché non ci sono più concorsi attrattivi, non ci sono incentivi, non c’è carriera.
C’è solo un carico crescente di responsabilità, burocrazia e attesa.
E se oggi esiste ancora qualche forma di fidelizzazione del medico ospedaliero al sistema pubblico, è anche grazie all’ALPI, che non è un trucco, ma un compromesso legale e condiviso, figlio proprio delle mancanze strutturali che lei sembra ignorare.
Lei scrive di vivere “a contatto con i pazienti”.
Ma davvero pensa che i medici non ascoltino le urla nei pronto soccorso? Che non vedano le liste d’attesa, le famiglie disperate, i pazienti senza diagnosi?
Ci conviviamo ogni giorno. Con la differenza che noi, dopo averli ascoltati, li curiamo.
Lei, invece, ci scrive sopra un titolo.
Lei ha scelto di semplificare. Noi no.
Abbiamo scelto la complessità, perché crediamo ancora che si possa parlare di sanità pubblica senza trasformare ogni articolo in un linciaggio.
La legittima denuncia dei problemi non autorizza a criminalizzare chi continua a lavorare in corsia.
E se oggi qualche medico ha ancora voglia di restare nel pubblico, è proprio perché qualcuno – anche nei sindacati – si è battuto per garantirgli un minimo di dignità e di possibilità.
Ci accusa di non voler curare il sistema. Ma è esattamente il contrario.
Siamo noi che firmiamo ogni giorno contratti, riforme, proposte.
Siamo noi a chiedere investimenti veri.
Siamo noi a subire le conseguenze delle scelte sbagliate, mentre qualcuno si limita a commentarle.
Per questo non accettiamo che chi vive fuori dai reparti, fuori dalle contrattazioni, fuori dalle assunzioni e dai pronto soccorso, si arroghi il diritto di giudicare chi ci resta dentro.
Lei dice che “l’unico mondo a contatto con i pazienti è il vostro”.
È ingiusto. È ingiusto per chi ha passato due anni con una mascherina FFP2 e sacchi arrangiati della spazzatura per camice.
A chi ha fatto trapianti in piena pandemia.
A chi lavora con turni spezzati, ferie negate e 20 euro lordi l’ora per salvare vite.
Noi i pazienti non li raccontiamo. Li visitiamo, li operiamo, li accompagniamo.
Lei può riportarne la voce. Noi, ogni giorno, ci carichiamo anche il loro dolore.
E non abbiamo bisogno di fare una “passeggiata nei reparti alle 16”. Ci siamo già. Tutti i giorni. Anche di notte. Anche nei fine settimana. Anche quando nessuno ci scrive lettere di solidarietà.
La prossima volta, prima di invitarci a “una passeggiata nei reparti”, provi lei a passare una notte in guardia in un DEA, a gestire 30 pazienti in una giornata con un solo infermiere, a spiegare perché una TAC urgente non si fa prima di due mesi perché il macchinario è rotto.
Poi ne riparliamo. Magari con meno ironia e più consapevolezza.
Noi ci viviamo con i pazienti, non siamo i cavalieri dell’ALPI. Lei ci scrive sopra. E non è la stessa cosa.
Scrive che “tra i due mondi, voi portate le carte ai tavoli, noi i fatti sulla pagina”.
No, Direttore.
Il mestiere dei medici è curare.
Il mestiere dei sindacalisti è difendere condizioni di lavoro dignitose per chi cura.
E il mestiere del giornalismo non è costruire colpevoli da dare in pasto al pubblico, ma cercare e restituire la complessità dei fatti.
Le ricordiamo che quelle “carte” sono contratti, accordi, leggi, sentenze.
Non sono American Express o Mastercard dedicate alla libera professione che lo Stato ci ha fornito.
Sono gli strumenti con cui si difende un medico aggredito, un reparto che chiude, un’assunzione che salta.
Lei porta l’opinione. Noi portiamo la responsabilità.
La “pacchia” è finita?
No, Direttore.
Quello che è finito è il tempo in cui si poteva aggredire un’intera categoria con una tastiera.
Quando il giornalismo abbraccia la semplificazione, non informa: accusa.
È finito il tempo della narrazione riduttiva, delle semplificazioni buone per i social, ma vuote nei contenuti.
Quando si usa l’ironia come scudo e la rabbia come stile, non s’indaga: si giudica e basta.
E quando si attacca chi cura, chi lavora e chi resta, allora sì: la nostra risposta non solo è dovuta. È congiunta.
Già. Tre firme, giusto. Esilaranti? No. Necessarie.
Perché davanti ad una provocazione gratuita, superficiale e ideologica, serviva una risposta che non venisse da un singolo, ma da una voce esilarante (come la definisce Lei) e collettiva: nazionale, regionale, coerente.
Le tre firme rappresentano responsabilità diverse, territori diversi, livelli diversi di azione.
Non è una moltiplicazione dell’indignazione: è una convergenza di una sola penna, che racconta la verità di migliaia di colleghi.
E se la nostra ulteriore replica la farà sorridere, allora il problema non è l’ironia: è la distanza tra chi lavora nei reparti e chi scrive editoriali per delegittimare i medici.
Chi trova comica la difesa della sanità pubblica, o non l’ha mai vissuta davvero — o non è più in grado di capirla.
Non accettiamo lezioni da chi scrive “con rispetto, ma senza più ipocrisie”, mentre insinua che difendiamo interessi di casta e che “non vogliamo curare il sistema”.
Noi il sistema lo curiamo ogni giorno. E a volte, purtroppo, anche da certe semplificazioni.
Noi preferiamo restare nei reparti, nei turni, nelle lotte.
Le lasciamo volentieri l’ultima parola senza ulteriori repliche.
Ma ci teniamo stretta la dignità della nostra categoria.
Con chiarezza definitiva,
Pierino Di Silverio
Aldo Di Blasi
Umberto Anceschi
Segreteria Nazionale Anaao Assomed
Replica
Gentili Pierino Di Silverio, Aldo Di Blasi, Umberto Anceschi,
vi ringrazio per la lunga, articolata e, in certi tratti, appassionata lettera. È un bel manifesto. Ed è anche la conferma – involontaria, immagino – di quanto io cercassi di dire.
Perché sì, la decenza conta. E conta anche quando si scrive. Ma soprattutto conta quando si rappresenta una categoria che – ci mancherebbe – ha tutto il diritto di difendersi, ma non sempre ha la lucidità di farlo senza confondere il piano personale con quello collettivo, l’onestà di molti con i privilegi di pochi, le regole con le storture.
Voi scrivete che il mio editoriale era ironico e sprezzante. Bene. La vostra replica, invece, è perfettamente conforme a un certo stile: indignata, moralmente inappellabile, scritta con la sicurezza di chi non teme contraddittorio. Una lettera che rivendica, accusa, pontifica e – ça va sans dire – si erge a presidio della verità. La vostra.
E allora cominciamo da lì: dalla verità. Quella che voi difendete con tripla firma, come se tre nomi bastassero a farla diventare legge.
Io ho scritto che l’ALPI – in alcune situazioni, in certi ospedali, per certi medici – si è trasformata in una zona grigia dove, pur restando nei margini della legalità, si perde il senso di ciò che è giusto. Voi avete risposto che è una “necessità”. Una toppa. Un “rimedio”. Lo capisco. E capisco anche che molti medici siano costretti ad arrangiarsi in un sistema che li ha traditi.
Ma vi chiedo: è questo il livello a cui ci rassegniamo?
Siccome lo Stato taglia, siccome la politica ignora, allora tutto diventa accettabile?
Anche che il cittadino venga indirizzato a una visita ALPI, magari dal medico che il giorno prima non era “disponibile”?
Anche che nei corridoi si mormori – perché, sì, si mormora – che a pagar si ottiene?
Anche che la sanità pubblica diventi un guscio dove si resta solo finché conviene, per poi uscirne appena si può?
Voi vi offendete perché ho scritto la parola pacchia. Non era riferita a chi lavora davvero in corsia. Ma a chi – in barba alla decenza – ha trasformato una professione in un paradosso etico: più il sistema è in crisi, più aumentano i margini per chi sa sfruttarlo. Legalmente, certo. Ma non senza contraddizioni.
Scrivete che difendete la sanità pubblica. Io non ho dubbi che molti di voi lo facciano. Ma non si difende la sanità pubblica a parole: si difende tornando a far sì che chi ha bisogno sia curato prima, senza dover sperare di avere l’amico, la raccomandazione o la carta di credito. Si difende rifiutando l’idea che l’ALPI sia l’unico modo per “integrare lo stipendio”. Si difende – e qui ci vuole coraggio – anche ammettendo che dentro il sistema pubblico ci sono derive che vanno corrette.
Sì, servono investimenti. Sì, servono assunzioni. Ma serve anche coraggio culturale: quello di non scambiare una difesa d’ufficio con la lotta per la qualità. Perché se la priorità è garantire visite a chi paga, mentre chi non può resta in attesa, allora qualcosa si è rotto. Anche dentro di noi.
E non basta accusare il giornalismo di “semplificazione”. Siamo sempre colpevoli, noi, quando non ci allineiamo. Ma io non scrivo per farvi piacere. Scrivo per raccontare che in questo Paese ci sono liste d’attesa da mesi e sale d’attesa piene di gente che non sa più a chi rivolgersi. Scrivo per chi aspetta la TAC da dicembre. Per chi non ha 150 euro da dare in ALPI. Per chi ha ancora la folle pretesa di curarsi gratis, bene e in tempi decenti.
E sì, scrivo anche per ricordare che esiste un confine – non sempre visibile, ma reale – tra il diritto e il privilegio. Tra la necessità e il vantaggio. Tra il dovere e l’opportunismo.
Sulla vostra professionalità non ho mai scritto nulla. Ma su certe dinamiche sì. E continuerò a farlo. Perché il mestiere del giornalismo non è accarezzare le categorie, ma disturbare i silenzi. Anche quelli ben firmati.
Vi lascio l’ultima parola. Come sempre.
Ma senza rinunciare alla mia.
Liborio La Mattina
Direttore de La Voce
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