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03 Aprile 2025 - 17:13
Settimo, giustizia è fatta: Mohammed e la sua famiglia lasciano l’incubo di via Petrarca
La speranza, a volte, nasce da una denuncia.
Il 18 marzo scorso abbiamo raccontato una storia che gridava giustizia: quella della famiglia di Mohammed Benaly, sei persone ammassate in 40 metri quadrati, tra muffa, intonaco che cadeva, soffitti instabili e finestre aperte anche d’inverno per permettere alla madre di respirare. Una casa di edilizia popolare che casa non era più. Un incubo, a Settimo Torinese, in via Petrarca 37/4, che abbiamo deciso di raccontare senza filtri. Perché il silenzio, su certe situazioni, è complice.
Quel grido non è rimasto inascoltato.
Lo stesso giorno in cui l’articolo è stato pubblicato, il Comune di Settimo ha emesso l’ordinanza numero 101. Il documento – firmato dal dirigente comunale Matteo Tricarico – ha dichiarato l’inagibilità temporanea del bagno e del balcone dell’alloggio, ordinando ad ATC di individuare le cause reali delle infiltrazioni e intervenire per ripristinare la sicurezza entro 30 giorni. Perché no, non bastava rifare un controsoffitto se sotto continuava a filtrare acqua. Non bastava dire "abbiamo fatto i lavori" se la muffa tornava, più aggressiva di prima. E non bastava promettere una nuova casa, se poi nessuno si muoveva per trovarla.
Ma stavolta qualcosa si è mosso davvero. E lo diciamo con emozione, senza timore di sembrare troppo coinvolti. Perché lo siamo. Perché raccontare certe storie è un dovere, ma vedere che qualcosa cambia è un onore.
La denuncia della famiglia Benaly in un video
Alla fine di marzo, la sindaca Elena Piastra e il direttore di ATC hanno effettuato un sopralluogo nel quartiere. Si sono guardati intorno, hanno visto coi loro occhi quello che le parole avevano già raccontato. E non hanno potuto girarsi dall’altra parte. Da lì è partita la svolta.
Nei giorni successivi, la famiglia Benaly è stata convocata: ATC aveva finalmente individuato un nuovo alloggio. Sempre a Settimo Torinese, ma stavolta davvero a misura d’uomo. Quattro stanze – una per ogni componente del nucleo famigliare – una cucina abitabile, un bagno sicuro. Una casa vera, con pareti sane e finestre da aprire per far entrare il sole, non per sopravvivere alle crisi respiratorie.
Quando Mohammed e sua moglie hanno firmato il documento di assegnazione, avevano le lacrime agli occhi. Dopo un anno di promesse mancate, di attese, di risposte mai arrivate, di muffa respirata ogni notte e di materassi sistemati a terra ogni sera, è arrivata la parola che non osavano più pronunciare: fine. Fine di un’ingiustizia, fine della paura che il soffitto crolli in testa, fine delle bacinelle posizionate sotto le infiltrazioni.
La consegna dell’alloggio avverrà entro un mese. La famiglia, nel frattempo, ha ricominciato a sorridere. "Ringraziamo veramente tutti quanti", ci hanno detto. Con un abbraccio. Con una stretta di mano che vale più di mille parole. "Ringraziamo chi ha raccontato la nostra storia, chi non ci ha lasciati soli. E chi, dopo tanto tempo, ha fatto il suo dovere."
Non è solo una buona notizia. È una vittoria della dignità.
Perché in questo Paese troppo spesso ci si abitua a tutto. Anche al degrado. Anche all’idea che chi vive nelle case popolari debba accontentarsi, debba ringraziare anche solo per un tetto, anche se quel tetto crolla. Ma nessuno, nessuno dovrebbe vivere in una casa insalubre. Nessuno dovrebbe chiedere il permesso per respirare. Nessuno dovrebbe sentirsi invisibile.
Abbiamo cominciato raccontando una ferita. Oggi raccontiamo una guarigione.
Adesso, nella nuova casa, Mohammed e sua moglie avranno una stanza tutta per loro. I figli avranno un letto, una scrivania, un posto dove studiare senza l’odore di muffa nei vestiti. Avranno una porta da chiudere, e non più da barricare. Avranno finalmente ciò che chiedevano da tempo: non il lusso, ma il minimo. Una casa dove poter semplicemente vivere.
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