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24 Marzo 2025 - 16:19
“All’interno dei nostri centri, sono previsti momenti ad hoc mirati al rafforzamento delle capacità linguistiche e delle abilità pratiche. Attraverso la proposta di percorsi formativi, di animazione e dialogo interculturale per le scuole, o promuovendo iniziative e campagne di sensibilizzazione, oltre alla gestione di spazi e attività dedicate ai giovani, per sedimentare nell’opinione pubblica una cultura dell’accoglienza dei profughi provenienti da nazioni in guerra, senza pregiudizi e luoghi comuni miriamo alla piena integrazione nel contesto territoriale in cui sono inseriti”. Così la cooperativa sociale Sanitalia Service, attiva anche sul territorio delle Valli di Lanzo, descrive le attività che offre nel settore dell’accoglienza migranti.
Da lunedì 24 marzo, però, a queste parole dovrà essere aggiunta un’ulteriore dichiarazione, che contrasta i valori e gli obiettivi che la cooperativa si promette di portare avanti nella teoria. Infatti, domani verrà riaperto il Centro di Permanenza per i rimpatri (CPR) di Torino, situato in corso Brunelleschi, e la gestione del centro è stata affidata proprio alla cooperativa torinese, con un appalto da 8,4 milioni di euro.
Al termine accoglienza dovrà essere aggiunta una nuova parola: reclusione. O meglio, detenzione amministrativa. Si parla di detenzione amministrativa perché le persone rinchiuse all’interno dei CPR non hanno commesso nessun reato. L’unico motivo per cui si trovano a essere private della loro libertà è il fatto di non essere cittadini italiani e di non avere una situazione regolare sul territorio italiano. Irregolarità, che per il governo italiano equivale ad illegalità.
I CPR sono al centro di molte critiche ormai da lungo tempo per le condizioni disumane in cui le persone recluse sono costrette a vivere. Molte testimonianze ricostruiscono l’immagine di luoghi dove il diritto non esiste. Il cibo è spesso avariato. L’assistenza psicologica è pressoché inesistente, le persone che presentano patologie non sono seguite in maniera adeguata e l’utilizzo di psicofarmaci, somministrati in maniera eccessiva, è all’ordine del giorno.
Non sono pochi i casi di persone che compiono atti di autolesionismo, così come i casi di suicidio sono ormai una costante. Emblematico è l’esempio di Moussa Balde, giovane guineano che a maggio del 2021, all’età di 23 anni, si è suicidato dopo essere stato abbandonato per 10 giorni all’interno della sezione Ospedaletto del CPR di Torino.
A febbraio presso il tribunale di Torino si è aperto il processo legato alla sua morte, che vede coinvolti l'ex direttrice del centro, Annalisa Spataro, e il medico Fulvio Pitanti. Entrambi dovranno rispondere dell'accusa di omicidio colposo. Sempre a febbraio le famiglie di Moussa Balde e di Ousmane Sylla, anche lui morto suicida nel CPR di Ponte Galeria di Roma, sono state invitate in Italia dalle realtà solidali che denunciano il sistema di detenzione amministrativa. A Torino, le famiglie sono arrivate per l’inizio del processo per la morte di Moussa e in diverse occasioni hanno incontrato i residenti.
A fronte della riapertura della struttura di corso Brunelleschi, negli scorsi giorni si sono quindi riaccese le proteste. Davanti al CPR è stato portato Marco Cavallo, il cavallo azzurro simbolo della lotta contro gli ospedali psichiatrici, per denunciare le condizioni dei centri di rimpatrio e per mettere in discussione il sistema repressivo che colpisce le persone in condizione di irregolarità.
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“I manicomi non si riformulano, si chiudono. Questo diceva Basaglia. Lo stesso vale per i CPR: non vanno migliorati, vanno cancellati. Perché la gabbia più bella resta sempre una gabbia” commentano gli esponenti torinesi di Mediterranea Saving Humans, l'associazione italiana che opera attività di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo.
La cooperativa Sanitalia ha dichiarato di voler cambiare la situazione del CPR di Torino, annunciando, tra gli altri, l'introduzione di servizi di mediazione linguistica, attenzione alle diversità culturali e supporto nell'accesso ai servizi sanitari. È da vedere se e in che modo la realtà del centro di corso Brunelleschi verrà cambiata. Ciò che rimane è però la domanda “come può un ente del terzo settore accettare la gestione di un centro di detenzione per le stesse persone che professa di voler accogliere?”
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