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Consiglio in carcere: farsa e rivolta

Un consiglio comunale trasformato in passerella, mentre il carcere di Ivrea è al collasso: detenuti abbandonati, attività cancellate, rieducazione inesistente e un’ennesima rivolta ignorata dalle istituzioni.

Consiglio in carcere: farsa e rivolta

Antonio Michelizza dell'Associazione Tino Beiletti

Il secondo consiglio comunale della storia di Ivrea tenutosi all'interno della casa circondariale. Il secondo per il sindaco Matteo Chiantore e per l'assessora Gabriella Colosso. Del tutto inutile, a giudicare dai risultati. Meglio sarebbe stato non farlo o farne uno nella solita assise.

Sulla carta un modo per dare un segnale di attenzione verso la realtà carceraria, nella pratica sono mancate le persone e i contenuti.

Solo tre detenuti presenti. Tutti e tre soddisfatti e contenti, o almeno così hanno dichiarato. Assenti i sindacati di polizia penitenziaria, presente il medico dell’Asl, una rappresentanza della Casa di Carità e del Cpia, che però a ben vedere avrebbero potuto essere incontrata ovunque. 

Lo ha detto sotto tono, ma con amarezza, la consigliera comunale Vanessa Vidano: “Mi aspettavo di ascoltare e vedere un pubblico diverso…”.

Tant’è!

Tutto inutile, se non fosse che a un certo punto la situazione è degenerata. Prima la sirena che avviso del pericolo, poi urla, vetri rotti, ambulanze che vanno e che vengono. Una rivolta, fomentata da chi, con ogni probabilità, non voleva perdere l’occasione di farsi sentire dalla “società civile”.

carcere ivrea

A dare il via agli interventi la direttrice Alessia Aguglia. Poi, tutti i presenti hanno seguito lo stesso spartito: un elenco di ciò che è stato fatto, senza alcuna riflessione su ciò che si dovrebbe ancora fare. Eppure, nei giorni precedenti, l'Associazione Volontari Penitenziari "Tino Beiletti" aveva inviato un documento dettagliato a sindaco, giunta e consiglio comunale, denunciando una situazione insostenibile. Un atto d'accusa che sottolineava come, dentro quelle mura, si consumi ogni giorno un fallimento collettivo, fatto di indifferenza istituzionale, diritti negati e una rieducazione inesistente.

La denuncia è chiara: il carcere di Ivrea non è un luogo di rieducazione, ma un contenitore di persone abbandonate a sé stesse. E si comincia con il giornale L’Alba bloccato e censurato, senza alcuna motivazione ufficiale.

La biblioteca, che avrebbe potuto rappresentare uno strumento di crescita per i detenuti, è chiusa da anni, lasciata nell’incuria più totale. Il progetto Cinevasioni, nonostante i finanziamenti ricevuti, ha potuto offrire una sola proiezione in un anno. La tipografia del carcere, che potrebbe creare opportunità lavorative, è ferma per mancanza di personale.

L'Associazione Volontari Penitenziari denuncia anche l'assenza di un dialogo costruttivo con la Direzione del carcere. "Abbiamo la sensazione di essere considerati dei meri fornitori di servizi assistenziali per indigenti a costo zero", si legge nel documento inviato al Comune. "Veniamo sollecitati a fornire presidi igienici, a fare movimenti economici per conto dei detenuti, ad acquistare oggetti che dovrebbe acquistare l’impresa con apposito appalto, a sostituirci nelle cure dentistiche con il contributo di un medico volontario".

La situazione per i volontari è diventata insostenibile. Le richieste di ingresso per svolgere attività sono bloccate da mesi. Le attività culturali e formative, fondamentali per la rieducazione e il recupero sociale dei detenuti, vengono sistematicamente ostacolate. Il progetto Artisti dentro, che prevedeva un calendario di eventi per i detenuti, non ha mai ricevuto risposta dalla Direzione. E c’è di più: la diffusione del video dello spettacolo Della mia anima ne farò un’isola, già autorizzato e finanziato, è stato bloccato senza una chiara motivazione.

"Il problema più grave - commenta Antonio Michelizza -  resta quello del reinserimento sociale...".

Molti detenuti escono dopo anni di reclusione senza una casa, senza un lavoro, senza nessun supporto. L’amministrazione carceraria se ne lava le mani e la comunità esterna, invece di accogliere, respinge.

Il risultato? La recidiva aumenta, perché chi esce dal carcere senza strumenti per ricostruirsi una vita non ha alternative.

L’Associazione "Tino Beiletti" ha cercato di cambiare le cose, coinvolgendo i Sindaci del Canavese per costruire percorsi di reinserimento. Ben 24 Comuni hanno dato la loro disponibilità ad accogliere ex detenuti in programmi di volontariato e formazione professionale. Ma senza una volontà politica forte e un coordinamento istituzionale serio, tutto questo rischia di rimanere solo sulla carta.

Nel carcere di Ivrea, oggi, meno di dieci detenuti escono quotidianamente per attività esterne. L’Associazione chiede di raddoppiare questo numero entro un anno. Non è un obiettivo irrealizzabile, ma una necessità. Nessuno dovrebbe uscire dal carcere senza un progetto di reinserimento. "Possiamo impegnarci, tutti insieme, a raddoppiare questo numero nel giro di dodici mesi?" chiedono i volontari. "Sarebbe solo una tappa, perché in dodici mesi saranno molte di più le persone che termineranno la pena, uscendo con gravi problemi di inserimento sociale e lavorativo".

Il messaggio al consiglio comunale è chiaro: basta immobilismo. Il carcere non è un mondo a parte, ma una parte integrante della città. Ignorare i problemi della detenzione significa alimentare un circolo vizioso di esclusione e marginalità che ricadrà su tutta la comunità. "Non è una questione di buonismo, è una questione di sicurezza, di giustizia, di umanità".

L’Associazione ha acceso i riflettori su un problema che nessuno può più fingere di non vedere. Ora la politica e la società civile devono decidere da che parte stare.

Il volontariato contro l'indifferenza: il vero motore del cambiamento

C'è un passaggio memorabile in Le ali della libertà, quando Andy Dufresne, dopo aver lottato contro un sistema opprimente, scrive all'amico Red: "La speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose. E le cose buone non muoiono mai."

Peccato che a Ivrea, dentro le mura del carcere, la speranza non trova spazio. Non c'è luce, non c'è riscatto, solo un'apatia che divora ogni tentativo di cambiamento.

L'ultimo consiglio comunale, tenutosi dentro quelle sbarre, doveva essere un atto di consapevolezza. Il risultato è stato un teatrino vuoto. Pochi presenti, poche parole, una mozione di 13 punti che vedremo come si evolverà. 

Eppure, in questo buio soffocante, c'è chi ancora lotta. I volontari dell'Associazione "Tino Beiletti" non si arrendono. Gridano, denunciano, cercano di colmare un vuoto che lo Stato lascia impunemente aperto. Si scontrano con ostacoli assurdi: una tipografia che potrebbe offrire opportunità lavorative e che invece resta inutilizzata; attività formative che dovrebbero dare speranza e che vengono ostacolate dalla burocrazia; un giornale che c'era e non c'è più

E il loro grido non è solo per i detenuti, ma per tutta la società. Perché l'indifferenza con cui lasciamo marcire queste persone dentro le celle ci si ritorcerà contro. Chi esce senza strumenti, senza un lavoro, senza un tetto, senza un'opportunità, tornerà inevitabilmente a sbagliare. E allora? Li richiuderemo dentro e penseremo di aver risolto il problema?

La verità è che nessuno vuole guardare in faccia questa realtà. Fa comodo credere che il carcere sia un luogo lontano, separato dal mondo civile. Ma non lo è. Il carcere è parte della nostra società. Ed è la prova più lampante del nostro fallimento.

L'Associazione "Tino Beiletti" ha proposto un obiettivo concreto: raddoppiare in un anno il numero di detenuti che partecipano ad attività esterne. Un piccolo passo, ma un passo necessario. Per dare una possibilità a chi esce, per costruire un futuro in cui la recidiva non sia la regola, ma l'eccezione.

Ma serve volontà politica. Serve che le istituzioni smettano di voltarsi dall'altra parte. Serve che ognuno di noi si chieda: vogliamo davvero continuare a fingere che il problema non ci riguardi? O vogliamo finalmente iniziare a cambiare?

La speranza non muore mai, diceva Andy Dufresne. Ma per tenerla in vita, qualcuno deve lottare per lei. Oggi, quella lotta è nelle mani di pochi volontari.

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