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02 Febbraio 2025 - 00:17
La Torino Invisibile: Senzatetto tra le Auto e il Degrado Urbano
Li chiamano clochard, barboni, senzatetto, invisibili. L’uso di queste parole cambia con il passare del tempo e delle mode, ma descrive sempre la stessa, tragica realtà: uomini e donne che non hanno una casa, un tetto sicuro, un letto caldo. Eppure, dietro alle definizioni, c’è molto più di uno status sociale negato: ci sono storie di vite spezzate, esistenze travolte da un destino ingiusto, difficoltà che ognuno di noi, con un po’ di sfortuna, potrebbe incontrare.
Basta passeggiare tra le strade del centro di Torino, nei pressi delle stazioni o all’ombra dei grandi palazzi, per accorgersi di quanto il fenomeno sia diffuso. In un angolo di marciapiede, protetto da cartoni e teli di plastica, c’è un uomo che dorme, rannicchiato come un bambino. Sembra quasi scomparire nell’abbraccio di una vecchia coperta, mentre la città, con i suoi ritmi frenetici, scorre accanto a lui in un flusso inarrestabile. Gente che va e viene, passi veloci che risuonano sui sanpietrini, telefonate di lavoro, vetrine sfavillanti. E lui, avvolto nel silenzio, guarda il vuoto con occhi stanchi.
Poco più in là si trova Simone, un ex muratore sulla quarantina che, con la barba incolta e gli abiti logori, si sfrega le mani per difendersi dal freddo. Racconta di aver perso il lavoro dopo un incidente in cantiere: “Quando non ho più potuto lavorare, tutto è crollato in un attimo. Non riuscivo a pagare l’affitto, la mia famiglia si è trasferita in un’altra regione e io sono rimasto qui, da solo.”
Nei suoi occhi un velo di nostalgia e il ricordo di quei giorni in cui, con le mani sporche di cemento, tornava a casa e sentiva il profumo di un pasto caldo ad accoglierlo.
Più avanti, una donna cerca di ripararsi dal vento gelido sotto un portico. Tra le mani stringe un bicchiere di carta sgualcito. È forse la sua casa più preziosa, quel recipiente fragile in cui spera di raccogliere qualche moneta e un briciolo di umanità. Attorno a lei, scatole di cartone che diventano muri di un appartamento immaginario, dove la luce e il calore sono ricordi lontani. Il viso è segnato dal freddo, le labbra screpolate dall’aria pungente, eppure nelle pupille si intravede ancora la dignità di chi non vuole arrendersi.
Un metro più in là, c’è Maria, ex segretaria cinquantenne. Regge un vecchio libro di poesie tra le dita ingiallite: “Lo leggo ogni sera, mi ricorda che c’è ancora qualcosa di bello al mondo,” dice. Aveva un sogno: aprire un piccolo locale tutto suo, in cui poter servire caffè e dolci, ma da quando ha perso il lavoro, ogni obiettivo si è frantumato contro la dura realtà di una città che non fa sconti a nessuno.
Storie invisibili, spesso sommerse dai pregiudizi. C’è chi li guarda con sospetto o paura, chi li accusa di pigrizia o di scelta di vita. Ma la verità è molto più complessa: il baratro della strada è un vortice che può risucchiare chiunque perda il lavoro, la famiglia, un legame essenziale. E così, piano piano, la vita di chi si ritrova senza un tetto viene avvolta da un’ombra di solitudine che rende difficile anche solo chiedere aiuto.
La città, con i suoi contrasti, sembra quasi abituata a questa presenza: le luci dei palazzi risplendono su viali alberati dove, la notte, si intravedono figure avvolte in coperte di fortuna. I negozi di lusso espongono capi di alta moda, mentre a pochi passi si consumano scene di quotidiana disperazione. A volte basta un attimo per incrociare uno sguardo e sentire un macigno sul cuore: perché in quegli occhi ci riconosciamo, vediamo riflessa la nostra fragilità di esseri umani.
In una piccola tenda di plastica, appoggiata contro il muro di una banca, dorme Felice, un signore di origini pugliesi che trascorre le sue giornate raccogliendo bottiglie di plastica. “Mia moglie mi ha lasciato quando non potevo più mantenere la famiglia. Ora lei sta altrove, io non so neanche dove,” ammette con un sorriso amaro. Il suo nome cozza contro la malinconia della sua esistenza, ma a volte sorprende con una battuta ironica che strappa un sorriso a chi gli offre qualcosa di caldo da bere.
Eppure, in mezzo a tanta indifferenza, ogni tanto compare un gesto di dolcezza. Un passante che si ferma a offrire un caffè caldo, una coperta più spessa o una parola di conforto. Sono piccole scintille di speranza, che illuminano per un istante l’oscurità di quelle vite precarie. Perché se è vero che la società è frenetica e distratta, è anche vero che il cuore di una comunità può risvegliarsi quando ci si accorge che l’altro non è un estraneo, ma una parte di noi.
“Clochard”, “barboni”, “invisibili”: sono etichette che semplificano una sofferenza che non conosce contorni netti. Dietro ogni volto che vediamo rannicchiato su un gradino, c’è la storia di un padre o di una madre, di un figlio, di un ex impiegato, di un giovane con un sogno interrotto. Riconoscere questa umanità è il primo passo per aiutare chi ha perso tutto a ritrovare un pezzo di speranza. È un cammino difficile, che richiede l’impegno delle istituzioni, la volontà politica di creare percorsi di reinserimento, l’empatia dei cittadini che non possono voltare lo sguardo.
Il freddo tagliente delle notti invernali o l’afa implacabile delle giornate estive non fanno distinzioni: non è un caso che molti siano costretti a cercare riparo dentro automobili abbandonate, sotto i ponti o nei pressi delle stazioni. Lì, dove il chiasso del giorno si trasforma nel silenzio rumoroso della notte, la realtà si mostra in tutta la sua fragilità. Si vedono accampamenti improvvisati con coperte stese, trolley esausti che contengono l’intera vita di una persona, sacchi a pelo che diventano case temporanee.
La parola “invisibili” pesa come un macigno. È un’ombra che ricopre queste vite con uno spesso manto di indifferenza collettiva. Ma ognuno di questi uomini e di queste donne ha un nome, una voce, un ricordo di un passato migliore e un sogno di un futuro più dignitoso. Ecco perché serve un impegno collettivo: non soltanto carità emergenziale, ma progetti che possano ridare un’identità a chi l’ha perduta, la possibilità di ricostruire un percorso di formazione, di cercare un lavoro, di recuperare quell’autonomia che fa sentire vivi.
Se ci fermiamo un attimo, se ci chinamo accanto a quel giaciglio di cartone e ascoltiamo anche solo per pochi minuti, possiamo scoprire quante storie d’amore, di coraggio e di dolore si nascondano dietro uno sguardo smarrito. Storie che ci entrano nel cuore come lame affilate, ma che sanno anche mostrare la straordinaria forza di chi non si è arreso alle avversità. Ogni vita vale, ogni persona merita riscatto. È per questo che dobbiamo imparare a guardare con occhi diversi, a non ignorare il prossimo che soffre, a non passare oltre pensando che non ci riguardi.
Perché, alla fine, clochard, barboni, senzatetto, invisibili sono solo nomi diversi per indicare un’umanità ferita. Un’umanità che implora di essere vista, accolta, riconosciuta come parte integrante della nostra comunità. Basta un piccolo passo, un gesto d’amore, per far cadere il muro dell’indifferenza. E forse, quando lo faremo, scopriremo che quei “senza casa” potranno finalmente smettere di essere “senza speranza”.
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