La Tavernetta è un night club che, negli anni ‘70, si trova in via Amendola 5, in pieno centro a Torino. Già teatro di una sparatoria nel 1974, il locale è ritrovo di gente non troppo raccomandabile.
Tra i suoi clienti abituali c’è il proprietario di una fabbrica di Vinovo,
Carlo Barile, che ha deciso di festeggiare lì il Capodanno 1976 con la compagna
Antonia Gasparotta. L’uomo non è esattamente uno
stinco di santo (è già finito a processo per falso, truffa e costruzione abusiva) ma non sa che, tra i circa 60 avventori presenti,
è un pesciolino in una vasca di squali.
La serata scorre tranquilla tra musica, balli, champagne ed “entraîneuses” e, intorno alle 3.30, la coppia si trova seduta a un tavolo in procinto di tornare a casa.
Ad un tratto si avvicina una ragazza di 18 anni, Rosetta Jannella, che, oltre a essere nota nel mondo della prostituzione ed essere stata arrestata per concorso in omicidio, furto d’auto e passaporti, è la fidanzata di un esponente di spicco del Clan dei catanesi, Angelo Santonocito, e si accompagna in quell’occasione a Remo Capitaneo, già condannato per gioco d’azzardo ed estorsione.
La giovane si rivolge alla Gasparotta dicendole di conoscerla e di aver lavorato insieme a lei a Milano, lasciando intendere un suo coinvolgimento nel mondo del sesso a pagamento. Antonia le replica che si sbaglia ma Barile si insospettisce e chiede spiegazioni alla fidanzata che nega nuovamente: è un equivoco, uno scambio di persona.
Non soddisfatto di tale versione, l’imprenditore va a cercare risposte direttamente dalla Jannella ma, probabilmente complice anche l’alto tasso alcolico nelle vene dei protagonisti, la richiesta viene male interpretata da Capitaneo che gli spacca una bottiglia in testa. In un attimo volano calci e pugni ma anche ingiurie e minacce di morte, finchè i due vengono separati dai camerieri che suggeriscono a Barile di rifugiarsi nei camerini delle artiste. L’industriale corre ma riesce a fare pochi passi perché viene colpito da due proiettili 7,65 che lo trafiggono al cuore e allo stomaco, uccidendolo sul colpo.
A sparare è un amico di Capitaneo, Michele Di Carlo, anch’egli noto alle forze dell’ordine. Conosciuto come sfruttatore di donne di vita, un paio di anni prima era stato messo dentro perché una sera, in via Ormea, aveva tentato di mettere sotto con la macchina tre prostitute e, non essendo riuscito nell’intento, ne aveva accoltellata una.
Latitante fin dal giorno dopo del delitto e inchiodato dai numerosi testimoni presenti quella sera, Di Carlo nega i suoi addebiti anche quando viene arrestato, l’8 luglio. Suggerisce che a sparare sarebbe stato Angelo Santonocito e che la Jannella avrebbe potuto raccontare tutta la verità.
Il fatto è che nessuno dei due ne sosterrà le tesi. La ragazza, quella notte, viene trascinata a forza fuori dal club proprio da Santonocito che, accusandola di essere la responsabile della tragedia, la pesta a sangue e la scarica in un albergo a ore di via Silvio Pellico. Qui, il giorno dopo, la diciottenne viene trovata rantolante dopo aver ingerito 120 pastiglie di un potente antidolorifico. Smette di respirare in ospedale dopo una settimana di coma. Si è suicidata o “è stata suicidata”? Non si saprà mai.
Santonocito, invece, coinvolto nell’assassinio del commissario Rosano muore in una sparatoria con la polizia nelle Marche.
La confessione di “Michelone” arriva solo a processo, nel 1981. “Ho visto il mio amico con il volto coperto di sangue e allora ho sparato per far cessare la rissa: non conoscevo neppure la persona che è morta. Volevo esplodere un colpo in aria ma la pistola s’è inceppata. Poi ho sparato verso un’ombra, così, più che altro per paura” dice davanti ai giudici.
Concesse le attenuanti generiche, quelle della provocazione e del risarcimento del danno, Di Carlo viene condannato a 12 anni e 2 mesi di reclusione.