Nell’Italia che ha visto la marcia su Roma il 28 ottobre e, tre giorni dopo, la nascita del primo governo
Mussolini (in compagnia di popolari e liberali) verso la fine del 1922 la cosiddetta “normalizzazione” è in pieno corso di svolgimento. Aggressioni a sedi di partito, di sindacato e della stampa della sinistra sono all’ordine del giorno. I fascisti picchiano, gli imprenditori finanziano,
borghesia e conservatori approvano, la polizia chiude un occhio:
il “pericolo rosso” del biennio precedente sembra un lontano ricordo.
Tra il 1921 e il 1922 anche Torino ha avuto la sua dose di squadrismo. È in quel periodo che prenderà fuoco la prima volta la Camera del lavoro. Nell’ agosto ’22 un passante, Sebastiano Negro, rimane ucciso da una pallottola sparata da una camicia nera da un’auto in corsa. 18 settembre è il turno dell’operaio Luigi Casalegno, sparato in via Po. Ai primi di ottobre muore il giovane segretario comunista di Caluso, Carmelo Bretto, colpito ripetutamente da fascisti con una mazza di ferro. Nessuno finisce in carcere e, nonostante tutto, ancora sembrano casi isolati in una città a forte vocazione socialcomunista.
Le cose cambiano in ottobre con la creazione della Milizia fascista, descritta come “organizzazione volontaria o per mercede per condurre la lotta armata contro la classe operaia”, con a capo, in Piemonte, Cesare Maria De Vecchi e, a Torino, Piero Brandimarte.
È proprio questi il primo a essere avvertito, la sera del 17 dicembre 1922, di quanto appena accaduto. A Barriera di Nizza (l’attuale Piazza Carducci) una delle sue squadracce ha appena teso un agguato a Francesco Prato, un bigliettaio del tram di fede comunista. I camerati lo colpiscono con una pallottola in una gamba, ma Prato, pur sanguinante, risponde al fuoco e uccide due componenti del commando, Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani.
La mattina dopo, alla sede del Fascio di Lungo Po Cairoli si organizza la vendetta. Vengono contattati gruppi di fascisti dal Piemonte e da regioni vicine: si presenteranno circa in 3000. Nel frattempo, in prefettura, avviene un incontro tra il vicequestore Tabusso, il viceprefetto Palumbo, il segretario del Fascio piemontese Marchisio e due comandanti di squadre. Le forze dell’ordine non vengono mobilitate e probabilmente sono arrivati ordini da Roma: bisogna dare una lezione ai “sovversivi”.
Intorno alle 11, circa 400 squadristi irrompono nel circolo anarchico dei ferrovieri e nel “Carlo Marx” di Barriera di Nizza, occupando i locali e distruggendo tutto quello che trovano all’interno. È poi la volta della Camera del Lavoro, al 12 di corso Siccardi. Qui bastonano il deputato socialista Pagella, il ferroviere Arturo Cozza e il segretario della Federazione dei metalmeccanici, l'anarchico Pietro Ferrero, lasciandoli però poi andare. Alle 2 di notte dello stesso giorno l’edificio verrà completamente devastato dalle fiamme.
Poi, però, cambiano musica. Verso le 13 sequestrano Carlo Berruti, segretario del Sindacato ferrovieri e consigliere comunale comunista. Lo portano in campagna, dalle parti di Nichelino, dove gli sparano quattro colpi nella schiena, uccidendolo.
Poche ore dopo è il turno di Leone Mazzola, proprietario di un’osteria in via Nizza 300. Gli squadristi entrano e sparano a un militante socialista, Ernesto Ventura, ferendolo. Alle proteste di Mazzola i “neri” rispondono trascinandolo nel retrobottega, dove trovano una scheda elettorale con sopra una falce e martello. Qui il ristoratore viene colpito da numerose coltellate e finito a revolverate. Si scoprirà poi che era un monarchico confidente della polizia: li aiutava nel contrasto ai comunisti.
C’è un avventore della trattoria che è fuggito durante l’irruzione. È un operaio di 34 anni che si chiama Giovanni Massaro. Scappato alla vista delle armi e rifugiatosi nella sua abitazione di via Nizza 279, viene inseguito e abbattuto con tre colpi in testa. Il suo cadavere viene messo su un camion e scaricato al fondo di via San Paolo.
Cala la sera e il tramviere Matteo Chiolero sente suonare alla porta di casa, in via Abegg 7. Sta mangiando ma pensa sia qualcosa di poco conto e va comunque ad aprire. I fascisti non gli dicono una parola e gli sparano tre volte nel petto. Muore sul pianerottolo, sotto gli occhi della moglie e della figlia di due anni.
Andrea Ghiomo comunista di 25 anni, lo vanno a prendere a casa di amici, in zona S.Donato. Salgono in sei o sette, lo portano in strada e qui lo riempiono di bastonate e lo trascinano per i capelli per centinaia di metri. Viene finito con una fucilata alle spalle.
La fine peggiore di tutti la farà Pietro Ferrero. Già picchiato e rilasciato la mattina durante l’irruzione alla Camera del lavoro, verso le 22 si trova nuovamente in zona. Abita da quelle parti. I fascisti lo intercettano mentre è in bici e lo massacrano di botte. Lo legano, poi, con una corda a un camion e lo trascinano fino al monumento a Vittorio Emanuele, dove arriva morto. Qui gli cavano gli occhi e gli strappano i testicoli.
La giornata si conclude con gli omicidi di Erminio Andreone e Matteo Tarizzo, entrambi operai ed entrambi prelevati in casa e uccisi uno in campagna e l’altro in un prato vicino all’abitazione. Uno a pistolettate, l’altro col cranio sfondato da un bastone. Ad Andreone daranno anche fuoco all’alloggio.
Nei due giorni successivi muoiono altre tre persone. Sono Angelo Quintagliè, ex carabiniere, con la sola colpa di aver imprecato davanti alla persona sbagliata dopo aver saputo dell’uccisione di Berruti; Cesare Pochettino, artigiano, apolitico, mitragliato e buttato in un burrone per un’erronea “spiata” che lo definisce “pericoloso comunista”; Evasio Becchio, l’ultima vittima, uccisa il 20, anch’egli operaio e fucilato in Corso Galileo Ferraris.
Il bilancio finale di questi tre giorni di squadrismo fascista sarà di 11 morti, 30 feriti, la Camera del lavoro e la sede de “L’Ordine Nuovo” (quotidiano comunista) completamente distrutte e ingenti danni nei vari circoli presi di mira.
Pietro Brandimarte, intervistato il 19 dicembre, dichiarerà: «Abbiamo voluto dare un esempio. Questa rappresaglia io la ritengo giusta. Noi abbiamo colpito senza pietà chi ci aveva provocato e abbiamo colpito i sovversivi nel loro covo di Barriera di Nizza. I comunisti sono avvisati. Abbiamo l'elenco di tutti loro e se si verificheranno altri incidenti gravi come questi, noi li scoveremo e daremo altri esempi».
Brandimarte confermerà, infine, che «il capo del fascismo torinese è l'on. De Vecchi. Egli ci ha telegrafato, come è noto, per condividere in pieno la responsabilità della nostra azione».
Grazie ad amnistie e condoni concessi dal governo del regime e da quello repubblicano, dopo un lungo iter giudiziario, i due responsabili principali vedranno le loro posizioni stralciate. Non faranno un solo giorno in galera.
A memento di quei giorni rimane Piazza XVIII Dicembre, in centro città, dove è presente anche una lapide commemorativa e una via a Berruti e Ferrero (prosecuzione di corso Tazzoli angolo corso Unione Sovietica).