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Ombre su Torino
04 Novembre 2024 - 07:00
Miseria.
Vera, quotidiana, opprimente.
Delfina Pignata nasce nel 1912 a Savigliano, sesta figlia di un agricoltore alcolizzato disinteressato alla famiglia che finisce al creatore proprio a causa della bottiglia.
A casa il pane lo portano due fratelli tessitori e anche lei si mette a lavorare come sarta ma i soldi non bastano mai. La ragazza è bellissima, corteggiata e scopre presto che il fisico di cui la natura l’ha dotata potrebbe essere l’antidoto da contrapporre a un destino da cui sembra potersi aspettare solo povertà e stenti. È per questo motivo che, una volta raggiunta la maggiore età, si trasferisce prima a Candelo e poi a Biella dove, accanto a rammendi e rattoppamenti di vestiti, inizia a prostituirsi.
Delfina Pignata
Discreta, affabile e mai volgare non fa mistero della sua professione, mostrandosi pronta a tutto pur di campare, come, ad esempio, arrivare a concedere le proprie grazie anche agli occupanti soldati tedeschi durante la Seconda guerra mondiale.
Tornata la pace, si accasa presso un uomo molto anziano che le dà tutto quello che aveva sempre sognato: soldi, soggiorni in stazioni termali, al mare in montagna ma soprattutto la sensazione di essersi finalmente lasciata la miseria alle spalle.Nonostante questo, tuttavia, il terrore di rimanere squattrinata la rende particolarmente avara.
Morto il suo amante, si trasferisce a Torino nel 1960.
Un paio di aneddoti delineano perfettamente la sua personalità. Il suo macellaio di fiducia, ad esempio, racconta che la donna compra un etto e mezzo di fegato due volte a settimana, mezzo pollo il sabato e che per il resto vive di caffelatte. Nonostante un’età non più giovanile, continua a vendere il suo corpo e anche la polizia si accorge di lei. Viene vista spesso sotto i portici di via Nizza fissare possibili clienti illudendoli che si trattasse “di un’avventura non mercenaria” per poi svelare le sue intenzioni e chiedendo spesso solo 500 lire per le sue prestazioni. Per avarizia più che per campare. Ai suoi parenti lo dice sempre: “se dovessi rinascere di nuovo incomincerei a fare la prostituta a 15 anni, ho fatto un sacco di soldi!”.
Gli affari vanno a gonfie vele e, in un decennio, risulta aver risparmiato 70 milioni di lire tra libretti di deposito e buoni fruttiferi, oltre a poter contare su due pensioni (una per il lavoro di sarta e una di invalidità poiché zoppa dopo un incidente) per 40 mila lire totali al mese, 30 mila lire al giorno per il suo lavoro da lucciola e un giro di prestiti concessi a vari parenti con tassi d’interesse oscillanti tra l’8 e il 10%. In più ha anche acquistato tre box auto e tre appartamenti di cui due affittati e uno in cui abita e di cui concede a pigione una stanza, in piazza Carducci 156.
Piazza Carducci in una foto dell'epoca.
In quest’ultimo alloggio, nel 1971, accoglie due ferrovieri che studiano a Porta Nuova per diventare aiuto macchinisti e che si chiamano Elvio Fiabane e Giampiero Ferro.
Il secondo, dopo aver passato il weekend in famiglia, giunge all’appartamento intorno alle 17 del 13 giugno. Tenta di aprire la porta e la trova bloccata ma non si preoccupa: la signora ha paura che i ladri si impossessino delle sue ricchezze e quindi, quando gli inquilini non ci sono, è solita barricarsi dentro.
Il giovane va a farsi una passeggiata, torna verso le 18 e, dopo aver a lungo scampanellato, decide di sollevare un battente dai cardini e di entrare. Delfina non c’è, probabilmente dorme e quindi Ferro si ritira nella sua stanza per poi uscire di nuovo rientrando intorno a mezzanotte.
Quando rincasa trova sul pianerottolo Fiabane e, visto che neanche a lui è stato aperto, i due forzano nuovamente l’uscio e si mettono a cercare la Pignata. Accendono la luce nella stanza da letto della cucitrice ma non c’è nessuno, anche se, per terra, notano un ingombrante involucro.
Avvolta in un copriletto, una tela cerata e un tappeto c’è proprio Delfina. Qualcuno l’ha uccisa mentre indossava un vecchio vestito e dei bigodini in testa, stringendole al collo un grembiule e massacrandola con almeno 20 colpi del rovescio di un’accetta che viene rinvenuta poco vicino.
Chi ha compiuto quello scempio ha lavorato di fino: la stanza è in perfetto ordine, il pavimento è stato pulito con perizia, i muri sono stati lavati e sul luogo del delitto vengono repertate solo alcune minuscole macchie di sangue di cui neanche l’assassino si è avveduto.
L’autore non sembra né un rapinatore né un maniaco colpito da raptus. In un cassetto, infatti, viene reperito mezzo milione in banconote da 5 e 10 mila lire e il trattamento riservato al cadavere suggerisce che ne fosse stato pianificato il trasporto e il seppellimento altrove, probabilmente rimandato per questioni di tempo.
Iniziate le indagini, complicate dal potenziale enorme quantitativo di uomini che frequentavano la morta, un primo riscontro pare arrivare da molto lontano, da Trieste. Il 16 giugno la locale questura trasmette ai colleghi sabaudi un rapporto che riguarda un trentenne architetto di Torino che si chiama Giuliano Giuliano.
Giuliano Giuliano
Questi racconta di essere sostanzialmente scappato verso il confine di Stato per evitare di commettere un omicidio. Parla di una donna, una prostituta di cui si è innamorato e che lo ha costretto a lasciare sua moglie. Una per la quale ha perso la testa, di cui non riesce a fare a meno, che gli ha intestato un appartamento ma che lo perseguita con la sua gelosia, al punto di volerlo mandare a vivere da alcuni suoi parenti in Australia per non fargli frequentare le altre. “Non so che fare, io l’ammazzo, o io o lei” dice agli inquirenti. Sospettato che non si trattasse delle fantasie di un esaltato ma di una sorte di curiosa confessione indiretta, il giovane viene torchiato ed arrestato anche perché diversi testimoni raccontano che, nei giorni precedenti alla tragedia, la Pignata aveva confessato che stava per sposarsi con un professionista, un ragazzo giovane e bello.
L’esistenza di Giuliano viene passata al setaccio e viene scoperta la sua tesi di laurea, un monumentale tomo riguardante il complesso d’Edipo. Questo scritto e le parole dell’accusato chiariscono la vicenda: non ha ammazzato nessuno, è solo scappato dall’opprimente figura materna che a suo dire lo plagiava e si era fatto 550 km per sfogarsi coi poliziotti. L’eccentrica fuga dalle responsabilità di un mezzo matto.
Nello stesso giorno in cui Giuliano esce di scena, viene fermata una delle persone di cui la vittima era creditrice. È il marito di una delle nipoti di Delfina, Salvatore Mario Di Palma.
Salvatore Mario Di Palma
Originario di un paesino vicino Biella, Mottalciata, Di Palma si procura da vivere con i proventi di un centinaio di flipper e juke box sparsi in vari locali della provincia. Il suo è un giro d’affari abbastanza florido, picconato però da uno stile di vita che non può permettersi. Si veste elegantemente, frequenta ristoranti e alberghi di classe, ha due motoscafi, una Citroen Maserati nuova di zecca e uno chalet dove si rifugia con la sua amante, la ventisettenne Livia Garbin.
Livia Garbin
Già denunciato per circonvenzione d’incapace e assegni irregolari, guadagna 4 milioni di lire al mese ma ha 70 milioni di debito solo con le banche a cui ne deve 7 ogni mese, ricorrendo a prestiti con amici e parenti per procurarsi i 3 mancanti. I sospetti cadono su di lui perché, nel 1966, Delfina Pignata gli aveva allungato 12 milioni con un interesse mensile dell’8% e pare che, negli ultimi tempi, avesse insistito particolarmente per ricevere indietro almeno i dividendi.
A inchiodare Di Palma sarebbe il fatto che la Pignata, venti giorni prima dell’omicidio, sarebbe stata vista a Mottalciata e avrebbe confidato a molte persone che era lì per riscuotere il suo credito. L’uomo avrebbe chiesto tempo e proprio la sera del delitto avrebbe dovuto incontrare la sessantenne a Torino. Oltretutto Delfina, oltre ad aver esternato più volte l’angoscia per quei 12 milioni, aveva riferito a una parente che temeva che il marito di sua nipote intendesse estinguere il debito uccidendola.
A metterlo nei guai è il suo alibi.
Inizialmente Salvatore riferisce che la sera del 13 giugno era con la moglie e la figlia. Le due confermano ma, messe alle strette, devono riconoscere che non era vero e che era stato il commerciante a dirgli di corroborare quella versione. Vistosi scoperto, allora, lo stesso narra che, in realtà, aveva passato la nottata con Livia Garbin nel loro chalet ma che non lo voleva ammettere per non farsi scoprire dalla moglie. Incredibilmente, anche la giovane amante inizialmente ne avvalora le parole ma poi prima metterà a verbale di non averlo visto fino al mattino successivo e poi ricorderà che in realtà non erano nel loro rifugio d’amore ma al cinema, finendo qualche giorno in carcere accusata di favoreggiamento.
In aggiunta, tra le carte della ragazza vengono trovate anche delle specifiche istruzioni su come avrebbe dovuto rispondere alla polizia, con tanto di elenco puntato: 1) dire di avere passato la notte insieme. 2) dire che il debito con Delfina non avrebbe dovuto essere pagato prima del 1972. Oltretutto nello chalet viene trovata una camicia sporca di sangue e anche qui Di Palma si supera. Prima dichiara che è li da 10 anni dopo che si era macchiato a seguito di un incidente stradale e poi che invece era stato ferito da un’aquila reale di cui è in possesso e che tiene in giardino. Salvatore e Livia restano in carcere fino all’11 luglio. Vengono liberati perché forniscono i biglietti del cinema e diverse persone raccontano di averli visti effettivamente in sala quella sera e, soprattutto, perché sulla camicia dell’uomo non c’era sangue ma pittura.
Da quel momento il vuoto.
L’assassino di Delfina Pignata, prostituta avida ma gentile, non è mai stato trovato.
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