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Ombre su Torino

Ammazzata per non aver stirato una camicia. Quel delitto d’onore consumato in silenzio della notte

Storia di Anna Piccolantonio strangolata dal marito nel 1964. Una vita segregata, la ribellione, la fuga negata

Ammazzata per non aver stirato una camicia. Quel delitto d’onore consumato in silenzio della notte

Ammazzata per non aver stirato una camicia. Quel delitto d’onore consumato in silenzio della notte

Come un lupo nella notte.
Sembra stia vagando senza destinazione, come se si fosse perso, sperando di raggiungere un indefinibile luogo mettendo casualmente in fila i passi uno dietro l’altro.
Ma non è così.
La sua meta è lontana ma non può che raggiungerla camminando perché, nonostante abbia 23 anni, non ha la patente e alle 3 di notte non ci sono in giro né taxi né pullman.
Scende in un silenzio spettrale da corso Chieri, si lascia alle spalle le colline di Torino e gira a sinistra in corso Casale.

La Collina di Reaglie

All’altezza del Motovelodromo scorge l’unica macchina che incontra lungo tutto il tragitto e decide di fermarla. Racconta all’automobilista dove deve andare e per quale motivo, ricevendo come risposta un paio di sguardi increduli e una risatina che lo infastidiscono particolarmente. L’uomo pensa sia uno scherzo, la fantasia di un ubriacone a spasso per la città a quell’ora di notte o di uno squilibrato. Il ragazzo, allora, mette su la maschera più fredda e determinata possibile: “Se non mi crede” gli dice “mi accompagni a casa che le faccio vedere”.
Durante il breve viaggio non si scambiano una parola e il loro mutismo si interrompe solo col giovane che apre la porta del suo bilocale. Accende la luce, lascia entrare l’altro e pronuncia una singola frase: “Adesso mi crede?”. L’uomo si irrigidisce come colpito da una paralisi, quasi sviene e immediatamente gira i tacchi inorridito. Non gli risponde ma gli fa cenno di seguirlo: “Va bene, la porto alle Nuove”.
Probabilmente il matrimonio non l’aveva voluto nessuno dei due.
Lui ha sempre raccontato che era finito in un tranello: sua sorella e la sua futura suocera l’avevano portato con l’inganno in una stanza e l’avevano tenuto chiuso per un giorno intero insieme a una fanciulla. A Dario Anna manco piace ma dalla strada parenti e amici lo prendono in giro, lo invitano a “fare l’uomo”. Non si può sottrarre, non può perdere la faccia, l’onore, l’atavica mascolinità che si confà alle tradizioni del sud Italia ancora vivissime negli anni ’60. Il giorno dopo si fidanzano.
Lei sostiene invece che quello che diventerà suo marito l’ha sostanzialmente rapita, l’ha trascinata nel suo paese quattro giorni nella classica “fuitina” e ne ha deturpato l’illibatezza per poi chiedere la mano al padre, in modo da mettere a tacere le malelingue.
Un’unione destinata a perpetrarsi nell’infelicità porta Anna Piccolantonio e Dario Di Pierno, 18 e 20 anni, a mollare famiglia, usi e costumi della Puglia e a spostarsi a Torino dove la ragazza ha diversi parenti.
Siamo nel 1961 ma questa sembra una storia ambientata cento anni prima.
Anna e Dario si trasferiscono in un bilocale ricavato in un sottotetto in corso Chieri 168, frazione Reaglie, in collina. Lui viene assunto per un’azienda che produce mobili per ospedali e lei lavora ad ore a servizio da alcune famiglie della zona, anche perché la maggior parte del tempo resta in casa ad accudire i due figli che ha avuto la coppia, Vittorio e Ornella.

I coniugi col secondogenito

La ragazza, sostanzialmente, vive murata dentro l’alloggio.
Dario, pur giovane, ha assorbito totalmente la cultura patriarcale d’allora del suo luogo d’origine, le sue rigidità, le sue leggi non scritte.
Anna non può uscire se non accompagnata, deve coprirsi il più possibile, non deve dare confidenza a nessuno. Per il marito risulta sconveniente che alla consorte vada di fumare o che osasse chiedere di essere accompagnata a ballare, reprimendo ogni sintomo di ribellione a suon di schiaffoni.
La Piccolantonio resiste, copre i lividi col trucco, inventa bugie su bugie per giustificare i segni che gli rimangono sul corpo e, piano piano, inizia a ritagliarsi dei piccoli spazi di autonomia.
Si fa assumere, di nascosto, prima come commessa in un negozio e poi in una fabbrica. Inizia a respirare un’aria diversa, a conoscere persone, a rendersi conto di come gira il mondo al di fuori delle sue opprimenti mura domestiche. Inizia a pretendere di uscire con le colleghe, di andare al cinema, in balera, nei musei. Nel 1963, addirittura, impone al coniuge di accogliere nella loro abitazione una sua amica, Antonietta Palmieri. Questi, dattilografa, per gli standard di Di Pierno è già fin troppo acculturata e pericolosa: “Antonietta ha studiato al contrario tuo e secondo me dai contatti con una persona colta non può nascere nulla di buono” è solito sentenziare.
L’ascendente positivo che ha su di sé l’amica spinge Anna a considerare, dopo anni d’inferno, di abbandonare il tetto coniugale.
Il giorno x è il 23 gennaio 1964.
Sono circa le 22 e in casa Di Pierno, oltre alla coppia, ci sono Antonietta e il suo fidanzato. Dopo l’ennesima accesissima litigata, durante la quale Dario fa a pezzi le foto del loro matrimonio, in un momento di tranquillità alla dattilografa viene chiesto di battere a macchina due esposti che ognuno dei coniugi vorrebbe consegnare alla polizia.

Una delle foto fatte a pezzi

In quello di lei si legge: “Io sottoscritta Piccolantonio Anna, nata a San Paolo di Civitate. residente in corso Chieri 168 espongo quanto segue: da circa tre anni sono sposata Di Pierno Dario, dal quale ho avuto due figli, ma con mio grande disappunto vedo che la nostra unione risulta infelice, forse perché questo amore non ci è mai stato da ambo le parti. Anche perché ci siamo sposati secondo le usanze del Meridione. Dapprima ho cercato di abituarmi al suo carattere non positivo, cioè soggetto facilmente a cambiamenti: cosa maggiore che mi induce a chiedere la separazione è la sua mancanza d'affetto ed inoltre la sua poca fiducia nei miei confronti e il suo carattere violento. Sperando nel loro buon senso prima di ulteriori conseguenze chiedo con la presente che mi venga concessa la separazione legale lasciando a loro il compito di disporre a chi spettano i bambini. Aggiungo che non pretendo niente da mio marito.”
Di diverso tenore quello di Di Pierno: “Io sottoscritto Di Pierno Dario nato a San Severo (Foggia) espongo quanto segue: da circa tre anni sono sposato con Piccolantonio Anna, abbiamo avuto due figli, ma l'umore familiare non è mai stato molto felice. Il contegno di mia moglie verso di me lascia molto a desiderare, tanto da arrivare al punto di minacciarmi di volersene andare per conto proprio, senza sapere dove e come possa vivere. Tutto ciò potrebbe essere una relazione del fatto che prima di sposarmi, il sottoscritto ebbe una relazione passeggera con la di lei madre ma quando mi sposai non ho mai più pensato a sua madre, ma bensì al buon andamento della mia famiglia. Penso di non avere mai mancato nei riguardi di mia moglie e dei bambini. Prego codesto spettabile Ufficio di voler intervenire, affinché possa mia moglie riconoscere il suo sbaglio e che ritorni la tranquillità familiare.”
Le due lettere vengono consegnate a un vicino di casa che l’indomani le porterà in commissariato e Antonietta e il fidanzato se ne vanno. Anna e Dario rimangono in silenzio, l’uno a fumare in un angolo, l’altra a preparare le valigie. È più o meno mezzanotte.
24 gennaio 1964, ore 3,30.
Dario Di Pierno ferma un automobilista in corso Casale, all’altezza del Motovelodromo. Quanto questi abbassa il finestrino, gli chiede se lo può portare alle carceri Nuove. Si vuole consegnare, ha ucciso sua moglie. L’altro non gli crede e si fa portare in corso Chieri 168 dove, appena aperta la porta, scopre con orrore il cadavere di Anna, massacrata di botte e strangolata con la cintura del suo stesso vestito.
Una volta in carcere Di Pierno confessa di averla ammazzata. Il movente viene sintetizzato in una singola frase: “un uomo d’onore non può permettere che sua moglie lo abbandoni”. Accanto a questo il giovane mette in fila altri fatti, quasi a voler passare lui, in qualche maniera, come vittima. Riferisce che i loro problemi coniugali sono iniziati quando, qualche tempo prima, la moglie aveva scoperto che aveva una relazione con la di lei madre. Ovviamente, nel racconto di Di Pierno, è la donna a provocarlo continuamente, lui non vorrebbe ma sarebbe stato quasi obbligato dalla passione della signora. Questa storia avrebbe incrinato i rapporti nella coppia ma a distruggere tutto ci avrebbe pensato Antonietta Palmieri. La giovane amica di Anna non solo le avrebbe mostrato le gioie della vita a Torino ma anche quelle dell’amore saffico, di cui Dario sarebbe venuto a conoscenza trovandole a letto insieme.
Il processo mostrerà che queste circostanze sono puramente frutto della fantasia di Di Pierno. Testimonianze e rilievi oggettivi mostrano la realtà di un ambiente familiare retrogrado, violento, con Anna al limite della riduzione in schiavitù. Vengono ricostruiti anni di soprusi e violenze ma anche gli ultimi minuti di vita della ragazza. Come si è svolta l’azione omicidiaria? La risposta è banale ma perfettamente in linea con tutta la vicenda.
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Dario chiede ad Anna di stirargli una camicia.
La fanciulla gli dice di no e l’altro la pesta a sangue finché, all’apice del raptus, le sfila la cintura dal vestito e la tira a sé fino a che non respira più. D’altro canto “un uomo d’onore” non potrà certo stirarsi le camicie da solo.
Nel 1965 una corte impietosita dal “fosco quadro nel quale maturò il delitto” condanna Dario Di Pierno a 16 anni di reclusione.
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