“Io ho un foglio di uscita dal carcere; ho l’AIDS. Posso violare il codice una, cento, mille volte. Prendetemi pure, tanto non mi potete fare niente”.
Nel 1993, in Italia, è esattamente così.
Sembra che all’improvviso ci si sia accorti che la sieropositività fosse realmente un problema e, accanto a spot televisivi e a campagne d’informazione, a intervenire è direttamente il Presidente della Repubblica. Diventa legge l’articolo 286-bis del codice di procedura penale, il quale prevede, in sostanza, che i malati di HIV che abbiano commesso un reato (qualunque esso sia) non possano finire in galera; vengano prima assistiti in una struttura sanitaria idonea e poi messi agli arresti domiciliari.
Non a caso, nelle stesse pagine che raccontano la nostra storia, si trova quella di Salvatore Flabo: condannato a 24 anni per l’omicidio di un brigadiere durante una rapina e a 14 per spaccio, la legge gli permette di essere detenuto presso la propria abitazione.
L’estensore del virgolettato in apertura, invece, è specializzato in scippi e rapine. Ha 32 anni, è tossicodipendente e sieropositivo e divide coi genitori una casa a Moncalieri, dove spesso è obbligato a scontare le sue condanne: si chiama Antonio Morabito.
Le sue imprese finiscono spessissimo nelle cronache locali, anche perché all’uomo non manca certo il coraggio, la spavalderia e una certa dose di violenza.
Ad esempio, nel settembre 1993, già ricercato per diversi borseggi, viene individuato alla guida di una Uno dopo che aveva appena strappato una collanina d’oro dal collo di una donna in via Petrarca, scaraventandola per terra e ferendola lievemente. Lui davanti e la polizia dietro a sirene spiegate, come nei film. Nella realtà, Morabito abbandona la vettura in corso Re Umberto e scappa a piedi, con gli agenti a inseguirlo, che sparano in aria e riescono a bloccarlo all’angolo con via Assietta.
Oppure, come nelle 24 ore tra il 12 e il 13 novembre dello stesso anno, quando, anche per i suoi standard, si supera. Ruba un’auto la sera del 12 e, poco dopo, rapina prima un tabaccaio e poi un negozio di scarpe. Il giorno dopo conduce quello che La Stampa definisce “un assalto studiato con la mentalità del delinquente abituale” ai danni di Emanuela Decrù, che cammina in via Lomellina con in braccio il figlio di due anni. Immaginando che in quella situazione l’unica preoccupazione della donna sarebbe stata il bimbo, la sbatte contro un muro e, senza reazione alcuna, le ruba la borsetta: bottino centomila lire.
Un’ora dopo punta una lama alla gola di Luigi Fieni, che sta facendo due passi col suo cane in via Bologna. La vittima, molto spaventata, istintivamente alza un braccio per difendersi, rimediando una coltellata a una mano prima di consegnare a Morabito un anello e un braccialetto d’oro. Arrestato a Porta Palazzo, viene condannato per direttissima, ricominciando la trafila tra l’ospedale e la casa dei genitori. Come un continuo déjà-vu che sembra destinato a ripetersi all’infinito.
Poi, però, arriva il 18 dicembre 1993.
Quel giorno la sua preda si chiama Giovanna Nicolini, una signora di 52 anni che ha la sfortuna di incontrarlo a Moncalieri. Le salta addosso, le porta via un orologio con bracciale d’oro e scappa via su una Panda marrone. Viene intercettato dalla polizia in via Artom, dove, probabilmente, si è recato per barattare il bottino con una dose di eroina. Parte l’ennesimo inseguimento della sua vita, ma stavolta gli uomini del 113 non sparano in aria, ma alle gomme, costringendolo a fermarsi.
Morabito schizza fuori dalla macchina, scavalca il muro di una scuola, atterrando malamente; rialzandosi, viene catturato dagli agenti Dario Morosini e Marco Moretti. Questi lo caricano sulla volante e lo portano in questura per interrogarlo. Mentre stilano il verbale, Morabito chiede di andare in bagno. È pallido, scavato in volto, sembra non stare molto bene. Fa pochi passi e, appena prima della porta della toilette, stramazza al suolo. Inutile la corsa all’ospedale: è morto in pochi minuti.
Questa è la prima ricostruzione dell’accaduto fornita dalla polizia.
La prima, perché fin dal giorno dopo, il centralino de La Stampa viene preso d’assalto da decine di abitanti di via Artom, vogliosi di raccontare la propria versione dei fatti. Diverse nei dettagli, le testimonianze convergono in un punto preciso: quel ragazzo è stato picchiato, massacrato di botte dagli agenti quando era a terra indifeso.
A seguito dell’apertura di un fascicolo d’indagine per omicidio preterintenzionale nei confronti di Morosini e Moretti e alla nomina di due luminari come i professori Tappero e Baima Bollone ai quali affidare l’autopsia, dalla questura iniziano a trapelare nuovi particolari.
Se inizialmente i due accusati avevano parlato di un “normale” inseguimento finito con un arresto incruento e avevano attribuito la morte di Morabito allo stress per l’ennesima fuga andata male o comunque a una dose d’eroina di troppo, le lesioni al capo e una copiosa emorragia intestinale (causa diretta del decesso per i periti) cambiano leggermente le cose.
Davanti alle risultanze necroscopiche, l’emorragia allo stomaco viene giustificata dal fatto che il morto sarebbe caduto da un muretto alto un metro e mezzo mentre scappava, mentre le altre lesioni gli sarebbero state provocate a seguito di una colluttazione durante l’arresto. “Ha opposto resistenza; siamo stati costretti a usare le maniere forti. Ma non abbiamo commesso alcuna brutalità”, queste le parole dei militi. Oltre a questo, un giallo nel giallo. Al momento dell’arresto, Morabito portava una giacca rossa, molto appariscente. Dopo il fermo, sparisce nel nulla, senza essere mai ritrovata, alimentando le voci che vorrebbero che su quel capo si sarebbero trovate le tracce del presunto violento pestaggio.
A processo, nel 1994, le testimonianze dei cittadini di via Artom non vengono ritenute credibili, inquinate dal pregiudizio che in quella parte di città si avrebbe nei confronti dei tutori dell’ordine: gli stessi verranno rinviati a giudizio per calunnia. In una requisitoria equilibrata, il PM Prunas chiede un anno e quattro mesi per entrambi gli imputati per omicidio colposo. Hanno ucciso, ma non ve ne era intenzione. Operavano in una zona a rischio, hanno certamente esagerato, ma non è stata un’aggressione selvaggia.
Il 27 gennaio 1995, i giudici assolvono Dario Morosini e Marco Moretti, dichiarandoli non punibili per aver agito nei limiti imposti dalla legge. Contemporaneamente, tuttavia, nessuno dei testimoni non creduti è stato condannato per falsa testimonianza.